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Renzi: "Torniamo alla Festa dell'Unità"

Il leader del Pd rilancia un vecchio simbolo del Pci mandato in pensione nel 2007

Renzi: "Torniamo alla Festa dell'Unità"

Renzi l'ha buttata lì all'improvviso, quasi come una battuta, anche se era molto serio. "Le nostre feste devono tornare a chiamarsi Feste dell’Unità". Lo ha detto nel suo discorso all’assemblea del Pd. Alle sue parole la platea ha risposto con un forte applauso, a sottolineare l'apprezzamento per la decisione. In prima fila, a battere le mani, c'era anche il vice segretario del Pd, Lorenzo Guerini, con una tradizione che parte dal Partito popolare italiano (come Renzi del Resto). Guerini è sembrato uno dei più entusiasti alla proposta di Renzi. Che lo ha gelato con una battuta: "Guardate come applaude Guerini. Lo dico qui: è un applauso finto. Glielo avevo preannunciato ieri sera e mi ha guardato in un modo...". Al di là delle battute, Renzi punta a riappropriarsi dei simboli cari alla sinistra italiana. Una sinistra che oggi non esiste più ma che a livello di brand ha pur sempre una certa importanza. La festa dell'Unità fu mandata in soffitta nel 2007, l'anno in cui, a Bologna, si tenne l'ultima festa nazionale, dalla fine di agosto alla metà di settembre, e fu sancito l'ingresso ufficiale dei Ds nel Partito democratico. Il segretario era Piero Fassino. Poche settimane dopo Walter Veltroni avrebbe vinto le primarie diventando il primo segretario del Pd (poi arrivò la sconfitta nelle Politiche del 2008).

Le festa dell'Unità per decenni avevano riempito le sere d'estate di molte persone. La prima in assoluto era stata organizzata il 2 settembre 1945, e fu chiamata "Grande scampagnata de l’Unità", come forma di finanziamento del quotidiano del Pci. L'idea era stata di un gruppo di ex esuli comunisti che l'avevano copiata dai "compagni" francesi de L'Humanité. La prima festa si era tenuta in Lombardia, nei comuni di Mariano Comense e Lentate sul Seveso. Vi avevano partecipato importanti leader nazionali del Pci: Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Luigi Long, Emilio Sereni. Fu un grande successo che, poco a poco, si allargò a tutto il territorio nazionale, con feste di vario livello (comunale, provinciale e nazionale). Ovviamente in alcune zone, quelle più "rosse" (Toscana ed Emilia Romagna in primis), il modello attecchì di più. In altre meno. Gli ingredienti erano sempre gli stessi: stand gastronomici (le mitiche salamelle ma non solo), pista da ballo, concerti e giochi a premi. Ovviamente anche i dibattiti (col passare del tempo sempre meno). Ogni anno una grande festa nazionale, con ospiti di rilievo e una notevole risonanza mediatica.

L'abbandono del nome "Festa dell'Unità" fu vissuto con una certa sofferenza, sia nelle vecchie sezioni di partito (poi tramutatesi in circoli), sia tra i militanti della sinistra. Anche se, a onor del vero, a farsi un giro alle feste dell'Unità di solito andavano un po' tutti, anche chi non aveva mai votato né pensato di votare per la "falce e martello" o i suoi eredi.

Il cambiamento del nome fu portato avanti senza troppi ripensamenti, sulla base di un ragionamento molto semplice: un marchio indelebile del Pci (poi Pds e Ds), non poteva restare indenne dopo la nascita di una nuova forza politica che, al proprio interno, conteneva un'anima di estrazione democristiana-popolare. Quindi spazio al nuovo nome, "Festa democratica". In provincia qualcuno subito protestò e decise di continuare a organizzare la "sua" festa dell'Unità. Ma erano solo fuochi di paglia. L'ordine di partito (via le Feste dell'Unità!) fu eseguito pressoché ovunque. Sull'onda dell'amarcord (e forse anche della nostalgia per la Prima Repubblica) su Facebook spuntò anche il gruppo "Aridatece la Festa dell'Unità". Il fondatore scriveva questo: "Ma quali Feste Democratiche... noi si rivole (sic, toscanismo) l'originale, l'unica, inimitabile, archetipica, mitica Festa de l'Unità!".

Dopo sette anni dall'abbandono del nome tradizionale della festa, Renzi torna all'antico. E lo dice senza esitazioni. Un piglio decisionista che non gli è nuovo. Già alcuni mesi fa, appena insediatosi alla guida del Pd, in men che non si dica traghettò il partito nel Pse, dopo che per anni in Europa era rimasto nel limbo: né carne né pesce (né socialista né popolare). Ora rimette in pista la festa dell'Unità. E c'è anche un'altra novità, questa dovuta alla necessità di ridurre i costi. "Noi abbiamo bisogno di mettere insieme e ripartire non possiamo più permettendoci due giornali diversi, due storie diverse". Lo ha detto a proposito dei due giornali di riferimento del Pd, l’Unità ed Europa, entrambi in difficoltà economica. Dall'alto del 40% preso alle Europee Renzi può permettersi questo e altro nel partito. Nella storia dei simboli - e dei miti - rientra anche l'operazione Berlinguer, il leader del Pci scomparso nel 1984 e ancora oggi idolatrato da una parte della sinistra, tanto che Veltroni lo ha addirittura "santificato" in un docufilm. A Casaleggio, che provò a "scipparlo" al Pd nella chiusura della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle (rivolgendosi alla piazza grillina il braccio destro di Grillo chiese alla piazza di gridare il nome di Berlinguer, "per rendere omaggio a una persona onesta"), Renzi rispose a muso duro: "Sciacquatevi la bocca prima di pronunciare quel nome". I miti, come i simboli, non si toccano.

Renzi lo sa bene, anche se lui ha un'altra storia.

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