Milano«La riforma Fornero è una boiata pazzesca». La citazione gli sale spontanea, dal cuore. Prende a prestito una delle migliori battute fantozziane l'imprenditore Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, per dare una definizione della riforma del lavoro. Proprio come il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.
Purtroppo però stavolta c'è poco da ridere e si parla di qualcosa di ben più pesante della corazzata Potemkin.
«Direi che non c'è proprio un bel niente da ridere. Sono a rischio migliaia di posti di lavoro, soprattutto quelli dei giovani».
Lei come imprenditore come si comporterà? Convertirà le partite Iva in contratti?
«Di fronte al ricatto di assumere i giovani o lasciarli a casa, io li lascio a casa. Non posso fare altrimenti nella mia impresa (ndr, la Sagsa spa)».
Una decisione molto dura, senza vie di mezzo.
«Del resto chi finora ha usato le partite Iva non può assumere. Parecchi giovani resteranno a casa. Non si possono fare riforme come se fossero un libro universitario. È impossibile fare impresa così, in questo modo possiamo solo galleggiare».
Sta dicendo che la riforma del lavoro è stata scritta senza ascoltare gli imprenditori?
«Potrebbe anche essere condivisibile in un altro periodo economico. Servirebbe a rendere più stabili i contratti. Ma non si può fare adesso. Introdurre un elemento di rigidità in un quadro economico così instabile peggiora solo le cose. Teniamo presente che hanno già chiuso 170mila imprese, oltre tremila a Milano, e manca lavoro ovunque».
Cosa servirebbe agli imprenditori per ripartire?
«Abbassare il costo del lavoro, non certo aggravarlo. Il ministro rifletta. Un lavoratore che percepisce mille euro al mese, all'impresa costa almeno 3mila euro tra contributi, Irpef e Irap. Dovrebbe costare al massimo 2mila euro. Se non si risolve questo nodo il Paese è destinato al declino».
Se i contratti costassero meno, si potrebbe assumere di più?
«Ora invece accade il contrario. Il primo pensiero di un imprenditore è quello di avere meno lavoratori possibili. C'è qualcosa che non va. Lo sviluppo di un paese non si imposta così».
E come?
«Vanno alleggerite le aziende. Bisogna fare in modo che gli imprenditori possano anche licenziare, ovviamente avvalendosi della cassa integrazione e di tutti gli ammortizzatori previsti».
E gli investimenti?
«Quelli vanno agevolati. Va semplificato tutto senza perdere altro tempo. Invece siamo in una situazione assurda, in cui la burocrazia impone ancora troppe briglie. Ci vogliono tagli veri e meno passaggi per poter aprire un'azienda».
In altri paesi ci vuole un giorno appena per avviare un'attività.
«Appunto. Noi invece abbiamo ancora parecchi vincoli che rallentano tutto».
E come la mettiamo con le banche e con i tassi di interesse sui prestiti?
«Le banche si sono allontanate dalle imprese. Hanno fatto una finanza non più basata sull'economia reale ma su prodotti virtuali. Per questo stiamo pagando un prezzo alto. E poi ora è difficile farsi finanziare. Ci sono imprese che non riescono ad ottenere prestiti pur avendo ordini dall'estero».
Quali sono i passaggi per affiancare le imprese nel processo di internazionalizzazione?
«Serve una rete d'impresa, va facilitato l'accesso al credito, va tagliata la burocrazia e va affrontato in modo sensato il tema della risorse umane. La riforma dell'Ice (istituto per il commercio estero) è più parlata che gestita».
Altra questione: oltre al costo del lavoro, c'è il problema del costo della vita.
«Per questo bisognerebbe tornare a parlare delle gabbie salariali. A Milano il costo della vita è quasi il doppio di quello in Puglia ma gli stipendi dei lavoratori sono uguali».
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