RomaLuna di fiele per Monti. Dopo gli iniziali osanna, sulla riforma del lavoro il vento sembra cambiato. Sulla testa del premier piovono critiche un po’ da tutte le parti: stampa internazionale, parti sociali e partiti. Persino in Futuro e libertà, costola del Terzo polo e pertanto i più filomontiani della maggioranza, si arriccia il naso. Il Professore tiene duro, si difende con stizza, fa le valigie per un summit che lo porterà tre giorni in Libano, Israele ed Egitto, e medita sulle contromisure. Che sono in sostanza due: aggrapparsi al Colle per ricevere il nulla osta alla fiducia, in modo da blindare il più possibile il provvedimento (o parte di esso); chiedere aiuto a Bruxelles affinché arrivino peana al suo progetto.
Di certo al Professore non ha fatto piacere che ieri il Wall Street Journal si rimangiasse le lodi nei suoi confronti, giorni addietro definito una sorta di Margaret Thatcher. La marcia indietro sul mercato del lavoro, innestata per togliere le castagne dal fuoco a Bersani, è stata letta come una prova di debolezza del premier. La Thatcher prese di petto le Trade Unions; Monti pure ma soltanto sulla carta perché poi ha ceduto di fronte ai «cugini» in Parlamento. Per cui le ultime modifiche sull’articolo 18, con la reintroduzione del reintegro in caso di licenziamento per motivi economici illegittimi, fanno sì che «la migliore analogia con i britannici possa essere con Ted Heath, sventurato predecessore Tory» della lady di Ferro. E ancora: la riforma del lavoro, così come originalmente ideata, poteva sembrare «un bicchiere d’acqua per un Paese che ha i problemi economici dell’Italia. Ma almeno prometteva di muoversi nella giusta direzione». Invece, «persino questa modesta riforma si è rivelata troppo per i sindacati e i loro alleati politici». Ma il graffio che fa più male è quando il quotidiano scrive che «Monti è stato scelto per recuperare l’Italia dalla soglia di un abisso greco. La riforma del lavoro è una resa a coloro che la stanno portando laggiù». Secca la risposta del premier: «Non ho mai cercato di essere la Thatcher - ha replicato - La riforma è complessa e merita analisi approfondite e non giudizi sommari: avrà un impatto positivo sull’economia italiana».
E anche il Financial Times non è tenero con il premier perché, dando la parola a Emma Marcegaglia, dalle colonne del giornale si definisce «Pessima» la riforma targata Monti-Fornero. Un giudizio acre che ha mandato su tutte le furie il ministro Fornero che ha derubricato a «teatrino delle parti sociali» i mugugni delle imprese. Già, Confindustria. Non solo la Marcegaglia aveva bocciato senza appello il testo del disegno di legge ma il quotidiano delle imprese, il Sole24Ore, ieri stroncava Monti con un editoriale del direttore, Roberto Napoletano. «Diciamo la verità: non abbiamo bisogno di pasticci che ipotecano il futuro e siamo ancora in tempo per correggerli».
Ma anche tra i partiti più filomontiani questa volta si arriccia il naso. Già l’altra notte, in seguito al vertice con l’ABC che ha sortito il disegno di legge «ammorbidito», il finiano Enzo Raisi aveva fatto un salto sulla sedia: «Se la riforma del lavoro è quella che pare raggiunta dall’accordo Pd e Pdl nessuno mi chieda di votarla: si è fatto il peggio del peggio. Io non ci sto». Posizioni personali, si disse. Ieri invece perfino Italo Bocchino riconosceva che «sul lavoro i conti non tornano. Per Monti è oggettivamente un accordo al ribasso che forse irrigidisce ancor più il nostro mercato del lavoro e che non sta affatto entusiasmando i mercati».
Il Pdl, ovviamente, denuncia il cedimento di Monti nei confronti dell’accoppiata Monti & Camusso e invoca interventi per modificare il provvedimento. Non solo: la decisione di finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali con un’ulteriore raffica di tasse fa drizzare i capelli in testa a quasi tutto il partito. Insomma, così proprio non va. Già l’asfissiante prelievo fiscale ha effetti recessivi sull’economia; se in più servono per una «riformina», bisogna correre ai ripari.
Ma il disegno di legge - che inizierà ad essere discusso in Senato l’11 aprile - sarà suscettibile di modifiche oppure no? Monti, se non vuole cambiare nulla, ha sostanzialmente due leve da azionare: la prima è cercare la sponda - come ha sempre fatto finora - del Quirinale. Un via libera di Napolitano alla fiducia, taglierebbe la testa al toro: questo è il testo, prendere o lasciare. Neppure Casini lo auspica: «Un’intesa c’è stata e le persone d’onore come noi non possono venire meno». Ma gli altri? Il premier potrebbe quindi spacchettare il provvedimento e decidere di mettere la fiducia soltanto sui punti più caldi. L’altra arma è quella di trovare appoggio nelle cancellerie estere ma soprattutto nelle istituzioni europee.
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