RomaTre anni di pena e due milioni di euro di multa. Sono durissime le richieste dei pm di Roma per l'ex ministro Claudio Scajola e l'imprenditore Diego Anemone. Il processo è quello dell'ormai famosa casa con vista sul Colosseo e l'accusa è concorso in finanziamento illecito a parlamentare.
Nell'udienza davanti al giudice Eleonora Santolini il pm Ilaria Calò attacca: «Il fatto compiuto è gravissimo. L'acquisto di appartamenti era un sistema di corruzione». Nella sua requisitoria anche il collega Roberto Felici descrive la vicenda che portò alle dimissioni di Scajola da ministro dello Sviluppo economico, come una «storia di corruzione». La tesi dell'accusa è chiara: Anemone, personaggio chiave dell'inchiesta sul G8 nata a Perugia e di cui questa è un filone trasferito per competenza nella capitale, avrebbe pagato tramite l'architetto Angelo Zampolini parte della somma (un milione e 100mila euro su un totale di un milione e 700mila) versata nel 2004 da Scajola per acquistare l'appartamento di via del Fagutale. E si sarebbe accollato anche 100mila euro di lavori di ristrutturazione, almeno fino al 2006. Questo per un do ut des: «In quel periodo Anemone ha ottenuto appalti per oltre 300milioni di euro».
I pm aggiungono: «Non è proprio possibile credere alla tesi della difesa secondo cui Scajola non si è reso conto che qualcuno al suo posto versasse una somma così enorme». Si riferiscono all'infelice frase dell'ex ministro sul fatto che «a sua insaputa» sia potuto avvenire il pagamento della somma eccedente ai 600mila euro sborsati di tasca sua. In realtà, per i legali di Scajola il processo non si doveva proprio fare: negano ogni collegamento tra il politico e l'imprenditore, affermano che mancano prove di un passaggio di denaro per l'acquisto della casa, chiedono l'assoluzione per insussistenza del fatto.
«La richiesta dell'accusa - spiega Scajola al Giornale - è spropositata e in contrasto con tutto ciò che è emerso nel processo. E cioè testimonianze, documenti e anche decisioni prese dallo stesso giudice, che dimostrano come dalle indagini emergano tanti pasticci e nessuna prova di reato. L'avvocato Elisabetta Busuito, nella sua arringa, ha smontato punto per punto l'accusa e il 27 l'avvocato Giorgio Perroni completerà il quadro». L'ex ministro ricorda di essersi «fatto da parte per quasi 4 anni», senza aver avuto un avviso di garanzia e conclude: «Sono sereno, come dal primo giorno, perché ho sempre detto la verità. Malgrado i dubbi sulla requisitoria dei pm, conservo piena fiducia nella magistratura e attendo la sentenza. Arriverà presto, il 31 gennaio».
Cauto ottimismo giustificato, per la Busuito, da fatti: «È la stessa guardia di finanza che ha condotto le indagini, a non avere certezza dell'origine della provvista. Non c'è elemento documentale o dichiarativo che consenta di ritenere provato un collegamento certo fra le società del gruppo Anemone e i contanti di cui l'architetto Zampolini dispone in vista del preliminare d'acquisto e del rogito davanti al notaio». Le indagini sarebbero state caratterizzate da «superficialità e inesattezza», dimostrate da documenti e testimonianze. Quella dell'antennista, per dirne una: in aula si è scoperto che in realtà aveva lavorato per la casa di Lory Del Santo, nello stesso palazzo. Il pagamento di un milione e 100mila euro da parte di Anemone sarebbe «una vera e propria illazione», né ci sarebbero prove di finanziamento illecito.
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