La presa d’atto della prescrizione non è una sentenza, ma una determinazione cronologica. E, quando si è fuori tempo massimo, è necessario interrompere le udienze.
De Pasquale ha cercato di dilatare a suo piacimento una scadenza che non è opinabile e che non può che essere precisa come le date di nascita e di morte. Ha, sostanzialmente infierito sul cadavere, mostrando un accanimento inaccettabile per un uomo di legge, pubblico ministero o giudice che sia.
Con il riconoscimento della prescrizione il Tribunale lo ha sanzionato, ma la condanna morale e spero materiale che gli tocca, viene da lontano, ed è stata pronunciata in modo netto e inequivocabile da un suo illustre collega. Lo abbiamo visto qualche giorno fa in occasione dell’anniversario di Tangentopoli, celebrato in televisione da Giovanni Minoli. Nella documentazione e nelle dichiarazioni dei protagonisti a un certo punto si sente Di Pietro commentare il suicidio di Cagliari come una sconfitta e una vergogna della magistratura. Si trattava, come molti ricorderanno, di una situazione opposta a quella del «processo Mills», ma il protagonista era sempre De Pasquale.
Nel caso di Berlusconi, pur certo della prescrizione, ha dimostrato una fretta indiavolata; ha addirittura cercato di conteggiare i tempi morti determinati, per l’alta funzione pubblica di Berlusconi, dal «legittimo impedimento», pur sempre riconosciuto dalla Costituzione.
Nel caso di Cagliari nessuna fretta. Indifferente allo stato di prostrazione di un uomo in carcere, De Pasquale, come tutti ricordano, e come denunciò lo stesso Cagliari in una memorabile lettera, non rispettò la promessa di interrogarlo in tempi brevi e anzi andò in ferie per le vacanze estive lasciando l’indagato ad aspettare. In quella circostanza non si preoccupò dei tempi, diversamente percepiti da chi è libero rispetto a chi è agli arresti.
Sentendosi abbandonato, senza alcuna certezza del suo destino e rispetto della sua persona, in balìa delle decisioni e degli umori del pubblico ministero, Cagliari si uccise.
Di Pietro, nella ricostruzione e nella valutazione dell’episodio, fu implacabile, non riconoscendo attenuanti a De Pasquale, il cui comportamento aveva danneggiato, oltre che Cagliari, la magistratura. Con comportamento opposto, De Pasquale, nel «Caso Mills», ha rivelato un volto persecutorio della magistratura. Il Csm, come già fece, lo assolverà. Ma le parole di Di Pietro, giustizialista in servizio permanente effettivo, restano la peggiore condanna.
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Le osservazioni precedenti su accanimenti e arbìtri di magistrati, si possono ovviamente estendere al sempre più inquietante caso di Lele Mora, che viene trattenuto in carcere, senza condanna, oltre ogni ragionevole necessità relativa ai rischi, per evitare i quali è stabilita la custodia cautelare. Reiterazione del reato: impossibile. Inquinamento delle prove: impossibile. Pericolo di fuga: monitorabile anche con gli arresti domiciliari.
Perché dunque Mora è in carcere? Può essere considerato pericoloso per la società? È giusto mortificarlo oltre misura? E se dovesse essere assolto? Non sarebbe giunto il momento di limitare la carcerazione preventiva ai casi di pericolosità sociale o ai crimini di sangue o di terrorismo, e limitare ai tempi tecnici (10-15 giorni per le necessarie verifiche contabili) la custodia cautelare per reati diversi, soprattutto amministrativi?
Infine mi chiedo: perché il mondo gay sensibilissimo ai diritti (penso alle battaglie di Paola Concia e Franco Grillini) non si mobilita per la liberazione di un uomo i cui reati sono direttamente connessi alle sue abitudini sessuali e che comportano la disponibilità di molto danaro? Dobbiamo nascondercelo? E il mondo gay deve vergognarsi della verità? Si sono forse
vergognati di Pasolini?Ed allora abbiano il coraggio di difendere Mora e di chiederne la liberazione. I suicidi di Tangentopoli dovrebbero essere sempre un monito. Non è giusto uscire dal carcere con i piedi in avanti.
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