Può apparire singolare che, dopo anni di finzioni e ipocrisie, una semplice verità venga dalla pagina «Lettere e commenti» della Stampa, martedì 15 aprile. Il signor Cristiano Urbani, in polemica con Gustavo Zagrebelsky che chiede «una corte (Costituzionale, ndA) più efficace», ci dice serenamente che «avere un figlio non è un diritto, così come non è un diritto avere un marito, non è un diritto avere una casa e così via. Sono tutte legittime aspirazioni, da tutelare ma non certo da imporre. Le coppie che non possono avere figli non sono certo martoriate da una legge. Ed il loro martirio potrebbe essere superato attraverso una adozione legale: il figlio adottivo è per sua natura eterologo e da sempre risolve il desiderio legittimo (non diritto, per carità...) di avere un bimbo cui voler bene». Un limpido buon senso che misura come in questi anni si sia abusato di diritti, non solo rispetto ai figli, ma anche rispetto al matrimonio, e in particolare alle unioni gay. Diversamente dal diritto alla salute, allo studio e al lavoro, essenziali e prioritari per garantire libertà e indipendenza agli individui, il matrimonio è un contratto sia per le coppie eterosessuali sia per quelle omosessuali. E non è necessario che le seconde scimmiottino le prime, negando l'evidenza stessa del rapporto fra uomo e donna, nella famiglia e del «matrimonio», letteralmente il dono della madre, quindi, configurabile in prospettiva della maternità. Altra cosa sono le unioni gay. Altra cosa le adozioni. Altra cosa le fecondazioni. Tutte opportunità, possibilità, eventualità, non diritti.
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Al di là dell'apparentemente opposta finalità, mi chiedo perché nessuno abbia aspramente contestato la promozione della Fondazione Ant, che assiste gratuitamente ogni giorno 4 mila malati di tumore. Vediamo la Gioconda di Leonardo pelata, come dopo un trattamento di chemioterapia. Una immagine molto efficace, ma nessuno ha obiettato per la rivendicazione dei diritti dell'originale. L'immagine, infatti, è un'altra. E altrettanto suggestiva e riuscita. Leonardo ha semplicemente offerto uno spunto agli intelligenti pubblicitari che hanno interpretato le esigenze della Fondazione committente.
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Abbiamo osservato che Michele Serra si compiace di evitare, come «luoghi di tenebre», ristoranti romani mal frequentati, dove «il puzzo del potere sovrasta quello delle fritture più grevi». Non vedremo Serra all'Assunta Madre, per la necessità, alta e nobile di vivere «una vita normale, con normali ambizioni, normali lavori, normali conversazioni a tavola». E, infine, «per il piacere di vivere», rispetto a Dell'Utri e ai suoi simili, «altrove». Se ne conclude che chi va da Assunta Madre non è «normale». Eppure io sono certo che Serra sui troverebbe benissimo nell'appartato, dimesso e popolare Antico Falcone, in via Trionfale. Lo provi. Poi, per non rovinargli lo stomaco e la «normalità», condivisa con tanti, gli dirò un giorno chi lo frequentava.
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Condivido la perplessità di Luca Mastrantonio rispetto alla scelta del sindaco Marino di abolire la parola «nomadi» dal vocabolario di Roma Capitale. Il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, apprezza invece la decisione. Non è chiaro con cosa intendono sostituirla, ma io ne sento ancora tutto il significato evocativo.
Lo spirito nomade è una condizione dello spirito, ma sarebbe impertinente per Nourì perché «la quasi totalità dei rom non ha o non ha più uno stile di vita nomadico, come riconosciuto in un rapporto del Senato del 2011 e dalla Strategia nazionale di inclusione dei rom presentata dall'Italia all'Unione europea nel 2012». Trovo più inquietante la parla «rom», tronca, come mutilata. Io sono «nomade», per temperamento, natura e abitudini, e non mi sento offeso.press@vittoriosgarbi.it
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