Ormai fare figli è un obbligo: giusto ribellarsi

Con la scusa dell'orologio biologico, procreare ormai è un obbligo sociale. Com'era una volta lo sposarsi

Ormai fare figli è un obbligo: giusto ribellarsi

La discussione è aperta: una donna, specialmente se sposata, è davvero tale se non procrea? Il tema è stato affrontato da Time, annunciato addirittura in copertina, e ora è destinato a svilupparsi con il contributo di vari commentatori, esperti e tuttologi che la sanno lunga, ma non abbastanza per essere convincenti. D'altronde dalle mie parti si dice: «Tace co, tate crape». Traduco: tante teste, tanti cervelli (ciascuno dei quali la pensa come gli garba).

Per quel poco che conta, al mazzo delle opinioni aggiungerei la mia. Il problema è che noi cambiamo in ritardo rispetto alla realtà e fatichiamo ad adattarci a essa. Le persone mature, in particolare, per non parlare dei vecchi, rifiutano di aggiornarsi perché rimpiangono quelli che, erroneamente, considerano «bei tempi andati» in quanto del passato ricordano con piacere solo i momenti lieti della gioventù.

In altre epoche non troppo lontane, se una ragazza non si fosse sposata entro 25-26 anni d'età, sarebbe stata etichettata come zitella, che non era un complimento, ma un giudizio negativo, peggio: irridente. La mentalità corrente era: la donna non maritata deve vergognarsi di non essere stata scelta da un uomo, quindi condannata a ricoprire un ruolo secondario nella società poiché non legittimata ad avere figli.

In linea di massima si può affermare che sino agli anni Sessanta la zitella era reputata uno scarto. Ora è raro che qualcuno usi la parola zitella, segno che il costume si è evoluto, ma non al punto da rendere completamente accettabile la rinuncia femminile alla prole. Sarà che la cultura cattolica ha impresso profondamente i propri valori nel nostro modo di pensare, sarà che la tradizione familiare non è ancora tramontata, numerose spose che abbiano superato i 30 anni sentono forte l'esigenza, se non hanno ancora avuto un bimbo, di colmare la lacuna. Vengono in taluni casi prese dal panico di non riuscire a restare incinte e ci provano in ogni modo, costringendo i mariti a prestazioni quotidiane, immagino sfinenti.

Lo chiamano orologio biologico: scandisce il tempo avvertendo la donna, nell'inconscio, che si avvicina la scadenza della fertilità e delle gravidanze senza pericoli per il feto. Questo confermerebbe che la maternità è una forma naturale, e insopprimibile, per esaltare la femminilità e darle un senso. Ma il mio dubbio è che il citato orologio biologico sia in verità un retaggio culturale: per millenni le signore sono state relegate in casa quali «fattrici» e angeli del focolare, a lungo andare si sono investite della parte e adesso per loro non è facile liberarsi da quella che si potrebbe definire una schiavitù travestita da nobile missione.

Non intendo dire che non sia nobile fare la mamma, per carità, ma non lo è affatto se si tratta di costrizione esercitata dagli uomini attraverso l'organizzazione sociale da essi costruita per fare i propri comodi. Io esco dalla tana e vado in giro a procurare il cibo, tu rimani qui a cucinarlo e ad accudire ai pargoli: questa era la formula nei secoli bui. Ma oggi non c'è più la tana, sostituita dal condominio, e il cibo si compra al supermercato, cosicché gli schemi maschilisti ancestrali, per quanto rozzamente adeguatisi alla modernità, non hanno ragion d'essere.

Le femmine studiano con maggiore impegno e maggior profitto dei maschi, il numero delle universitarie è superiore a quello degli universitari, i concorsi pubblici sono dominio quasi assoluto delle ragazze, che hanno conquistato almeno la metà del mondo contemporaneo. E allora? Ovvio che se ne infischino del focolare, dei fornelli e dei pannolini e si buttino nelle professioni con una grinta impressionante. La parità dei sessi si raggiunge soltanto con la parità di rendimento nel lavoro. Se non è ancora un dato di fatto acquisito, poco ci manca: questione di qualche anno.

Senonché spesso si pone una questione drammatica: se una donna è in stato interessante, prima o poi deve sospendere l'attività lavorativa, interromperla per un anno come minimo, finché il pupo non ha l'età per andare al nido. E fosse solo questo il gap. Anche un figlio unico comporta per la madre una sorta di secondo lavoro, cui spesso se ne somma un terzo reso necessario dal governo della casa. Ecco perché sono in costante aumento le donne che, nonostante l'orologio biologico, decidono di non avere eredi, preferendo - magari con qualche sofferenza - dedicarsi alla professione, specialmente se di alto profilo, da cui traggono soddisfazione e benessere economico, oltretutto sganciandosi dalla dipendenza (umiliante) dal marito.

Il fenomeno è già apprezzabile nelle statistiche ed è destinato a crescere per contagio o, meglio, per effetto dello spirito imitativo.

Sale il livello culturale delle signore, sale il grado di responsabilità che esse si addossano in ufficio, sale la loro retribuzione, di conseguenza scende la quantità delle mamme vocazionali. Non c'è da stupirsi, ma solo da prenderne atto. Lo ordina la realtà.

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