Milano - La prima pallottola lo attraversò da parte a parte, ma Enzo Stevan continuò ad avanzare come uno zombie. L'autopsia dirà poi che era pieno di alcool e di cocaina, e forse fu il cocktail a tenerlo in piedi. Allora suo figlio gli sparò di nuovo: «Mio padre invece che arretrare barcollava un attimo ma continuava a venire verso di me, sempre con il coltello in mano, tanto che istintivamente esplodevo un secondo colpo. Mio padre è indietreggiato, si è accasciato al suolo e non si è più mosso».
È passata una manciata di mesi dalla sera del dicembre 2012 in cui in un appartamento di Cesano Boscone, alle porte di Milano, la guardia giurata Denis Stevan ammazzò suo padre. Tra tre anni, il parricida potrà tornare libero, in affidamento ai Servizi sociali come prevedono le nuove, e più larghe maglie del decreto svuotacarceri. Perché ieri il giudice preliminare Andrea Salemme lo ha condannato a nove anni e quattro mesi di carcere. Probabilmente è la pena più bassa emessa per un omicidio volontario. Il giudice non ha concesso a Denis Stevan l'alibi della legittima difesa, come chiedeva il suo avvocato Enzo Barbetta. Ma ugualmente gli ha inflitto una pena la cui indulgenza salta all'occhio e fa inevitabilmente discutere: tanto più quanto è evidente che a rendere questo delitto così comprensibile, e in parte così giustificabile, è la figura violenta della vittima. Un uomo dalla doppia faccia: con l'alcool e senza alcool, con la droga e senza la droga. «Io volevo bene a mio padre - dirà il figlio al giudice - a volte mi faceva anche tenerezza, quando finiva l'effetto dell'alcool diventava una persona normale». Ma «quando prendeva lo stipendio beveva sempre», e in casa diventava un inferno. Per i figli, e soprattutto per la moglie.
Basta questo a degradare il delitto, e a punire l'uccisione di un uomo più blandamente che - per esempio - una bancarotta? Non c'erano altri mezzi per porre fine alle violenze di Enzo Stevan se non piantargli due pallottole nel petto? Durante il processo con rito abbreviato, il difensore Enzo Barbetta si è battuto a lungo perché entrassero nel processo anche ragionamenti più generali sul diritto a difendersi dalle violenze, e come vada valutata la reazione sotto l'effetto del panico, quando la fredda analisi di ciò che è giusto e sbagliato diventa impervia: e sono argomenti che evidentemente hanno fatto breccia nel giudice. Ma, leggendo gli atti dell'inchiesta, è difficile non togliersi dagli occhi la scena della morte, nel dimesso appartamento di periferia. Ancora più difficile togliersi dagli occhi le foto del morto, con i lineamenti stravolti dalla paura e dal dolore. Nove anni di carcere, che diverranno meno di cinque, sono la sanzione giusta? Domanda difficile, e risposta forse impossibile.
«Ricordo fin da bambino episodi di violenza domestica - ha raccontato Denis Stevan ai carabinieri, la sera stessa del delitto - in diverse occasioni mia madre è stata picchiata da mio padre anche se non ha mai fatto denuncia». E poi la scena della tragedia: «Oggi pomeriggio dopo aver fatto alcune commissioni con mia madre siamo tornati presso la nostra abitazione. Giunti nei pressi incontravamo mio padre e già nell'ascensore, mentre salivamo a casa, mi rendevo conto che lui aveva bevuto, infatti barcollava e biascicava.
Come siamo entrati in casa mio padre e mia madre hanno cominciato a litigare e discutere, tanto che decidevo di uscire. Quando sono tornato notavo che la lite si era fatta più intensa, tanto che mio padre urlava e sbatteva i mobili tanto da rompere un tavolino e una sedia (...
) mentre passava davanti a me iniziava ad insultarmi dicendomi tu cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, io non ho paura di te. Sul fianco sinistro, legato alla cintura, aveva un coltello». A quel punto Denis torna in camera, e dalla cassaforte prende la pistola da metronotte. E quando il padre lo punta col coltello, fa fuoco due volte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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