Il signor Grandi Numeri specialista in capolavori

Immaginate un critico d'arte assiso in una biblioteca, la sua, mentre compulsa 15.000 volumi che parlano solo di questo: d'arte. Immaginate che circa 400 libri li abbia scritti lui: l'ultimo, appena uscito, di 464 pagine. Immaginate che scelga il fior fiore delle opere raffigurate nei tomi, sino a comporre un percorso concettuale, storico ed estetico di suo esclusivo gradimento in grado di dipanarsi lungo uno, due, tre o magari più secoli. Immaginate che sia capace di farsi prestare, e spesso gratis, centinaia di capolavori d'inestimabile valore da 1.100 fra i maggiori musei e collezionisti privati di 35 nazioni, per appenderli dove piace a lui e tenerli lì per mesi. Immaginate gente disciplinatamente in fila sino a 4 ore con la speranza di vederli.
Aprite gli occhi: ecco a voi il signor Grandi Numeri. All'anagrafe Marco Goldin, nato a Treviso il 12 gennaio 1961. Il più eclettico promotore di eventi artistici che l'Italia abbia mai avuto. Cifre alla mano, la sua mostra L'impressionismo e l'età di Van Gogh tenutasi 10 anni fa alla Casa dei Carraresi di Treviso, che allineava 45 tele del maestro olandese - fra cui tre mai viste prima - e altre 117 opere, totalizzò la bellezza di 602.000 visitatori. Record strabiliante per il Belpaese (seguito dai 541.000 che Goldin radunò a Brescia nel 2005 presentando 80 Van Gogh e 70 Gauguin tutti insieme, roba che neanche il Metropolitan di New York ci sarebbe riuscito), di poco inferiore solo ai 758.000, primato mondiale, accorsi nel 2012 al Tokyo metropolitan art museum per ammirare la Ragazza con l'orecchino di perla. Ma il signor Grandi Numeri sta per superare se stesso: dall'8 febbraio, e sino al 25 maggio, riuscirà a esporre a Bologna, nella cornice di Palazzo Fava, proprio l'ipnotica e fascinosa fanciulla inturbantata effigiata da Jan Vermeer nel 1665, diventata una star sui mass media dei cinque continenti per la ressa che dallo scorso 23 ottobre ha creato alla Frick collection di New York. Sarà l'unica tappa italiana, anzi europea, di un tour che finora ha toccato soltanto cinque luoghi fra Giappone e Stati Uniti e che si concluderà nel capoluogo emiliano.
Dal 1996 a oggi, Goldin, laureato in lettere con indirizzo artistico a Ca' Foscari, ha esposto 9.000 pietre miliari della pittura in 20 sedi diverse e si avvia a chiudere il 2013 con una sbalorditiva contabilità: 9 milioni di spettatori. Paganti, ça va sans dire. «Ma il prezzo d'ingresso è bloccato da cinque anni a 12 euro, 6 per le scuole», ci tiene a precisare. A Verona, dove alla Gran Guardia ha da poco inaugurato la rassegna Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento, nei primi 10 giorni ha già staccato 20.000 biglietti. Al costo di una pizza si possono gustare 105 meraviglie: 22 Monet, 7 Van Gogh, 3 Cézanne, 2 Rembrandt, e poi Gauguin, Renoir, Carracci, Degas, Manet, Pissarro, Poussin, Turner, Courbet, Corot, Church, Lorrain, Guardi, Bellotto - e perdonate se per ragioni di spazio risparmio non solo sui nomi propri ma anche sui cognomi - nonché 5 Canaletto, incluso il Bacino di San Marco dipinto nel 1738, «un manifesto della perfezione e della bellezza» che finora era uscito solo una volta dal Museum of fine arts di Boston. Da oltre 30 anni Venezia cercava di riportarlo nella sua sede naturale: niente da fare. Ma, come ha detto il direttore Malcolm Rogers, «Goldin makes things happen», fa accadere le cose.
Ecco, in che modo il signor Grandi Numeri riesce a far accadere le cose? È l'interrogativo che mi ha guidato sino a Palazzo dei Forestieri, alle porte di Treviso, dove ha sede Linea d'ombra, che progetta le grandi mostre, ne cura l'allestimento, provvede al trasporto dei capolavori in Italia, stampa in proprio monografie e cataloghi scritti da Goldin. Che di Linea d'ombra è il fondatore e l'unico socio, tanto da abitare con la moglie Ketty e le figlie Veronica e Maddalena, 22 e 19 anni, nelle barchesse della villa veneta, circondata da un parco spettacolare.
L'azienda prende il nome dal romanzo di Joseph Conrad. «A 35 anni il giovane capitano si rimette a navigare: la mia età quando decisi che era venuto il momento di prendere il largo, di cimentarmi in qualcosa di diverso, di lasciarmi alle spalle la regione della prima gioventù, come scrive Conrad». Nel battezzare l'impresa s'è ispirato anche ai quadri di Piero Guccione, che Goldin tiene appesi sia nel suo studio sia in casa, «gli unici che posso permettermi»; mari e campi dove il cielo sconfinato talvolta è attraversato da una striatura scura: il logo di Linea d'ombra viene da lì.
Qual è il segreto del suo successo?
«Un mix. I rapporti personali e di amicizia con direttori di musei, curatori, collezionisti: viaggio in continuazione per cementarli. I progetti delle mostre: fondamentali. Per ottenere udienza, occorre che siano affascinanti, innovativi. La capacità di toccare la mente e il cuore di chi deve prestarti un capolavoro. La continuità dei risultati: da tre lustri non facciamo mai meno di 200.000 spettatori. Una garanzia per i musei internazionali, che ne ricavano una pubblicità indiretta».
Ma perché i musei all'inizio hanno spalancato le porte proprio a lei?
«Non conoscevo nessuno fuori dall'Italia. Nel 1994 a Parigi il critico Roberto Tassi mi presentò Rodolphe Rapetti, origini napoletane, curatore del Musée d'Orsay, poi nominato capo dei Musei di Strasburgo. Quattro anni dopo Rapetti mi portò dal direttore dell'Orsay, Henry Loyrette. Volevo commemorare Tassi, nel frattempo deceduto, presentando in Italia i suoi pittori prediletti. “Ottima idea”, mi spronò Loyrette. Aprì il catalogo del museo: “Ti va bene questo Monet? E questo Cézanne? Che ne dici di questo Degas?”. Non credevo ai miei occhi. “Ho capito: ti piacciono. Te li do”. In seguito Loyrette è diventato direttore del Louvre, arrivando a prestarmi 10-15 capolavori al colpo. Da lì, a cerchi concentrici, sono arrivato a tutti gli altri. Oggi busso alla porta di musei dove non sono conosciuto e scopro che invece mi conoscono, perché ho una storia che parla da sola. Se dovessi pagare una royalty su tutte le opere che espongo, queste rassegne non si potrebbero fare».
Nessun altro segreto?
«È l'unica società guidata da uno storico dell'arte: le altre si rivolgono a terzi per ideare un evento. Organizzo rassegne che piacciono innanzitutto a me, che tengono insieme l'emozione e la conoscenza. E non affitto le mostre intere».
Si spieghi meglio.
«Prenda le esposizioni in corso a Milano. Ritratti del Novecento: vengono tutti dal Centre Pompidou di Parigi. Retrospettiva di Kandinsky: sempre dal Pompidou. Sculture di Auguste Rodin: prese in blocco dal Musée Rodin di Parigi. A Roma idem. Impressionisti di piccolo formato all'Ara Pacis: tutti provenienti dalla collezione Mellon della National gallery of art di Washington. Per me queste sono mostre a metà. A Verona ho dovuto mettere insieme 40 prestatori di 12 Paesi diversi per realizzare ciò che avevo in mente. Un lavoro immane».
Capisco.
«No, non ha capito. Questo significa assumersi in prima persona rischi esagerati. Ci ho rimesso un sacco di soldi».
Quando è accaduto?
«Quando ero ammalato di gigantismo più di oggi e il Goldin curatore aveva il sopravvento sul Goldin imprenditore. Per Turner e gli impressionisti, al Museo Santa Giulia di Brescia, ero partito da 150 opere e sono arrivato a 300. Per America! da 150 sono salito fino a 440, ridotte in extremis a 390 per non finire sul lastrico. Ma intanto i costi di trasporto e assicurazione erano decuplicati».
Sono molto care le polizze?
«I 105 dipinti esposti a Verona sono assicurati per 1 miliardo di euro col broker Aon, che a sua volta coinvolge vari riassicuratori, Lloyd's di Londra in testa».
Chi fa il prezzo di un capolavoro?
«La Ragazza con l'orecchino di perla è stata valutata 300 milioni di euro dal Mauritshuis, il museo dell'Aia che me la presta. Quotazione virtuale: non esiste mercato per Vermeer, visto che ha lasciato solo 36 opere, nessuna delle quali oggi andrebbe all'asta».
Che cos'ha di tanto speciale questa fanciulla?
«È come la Gioconda: Leonardo da Vinci ha dipinto di meglio, eppure resta la più famosa. In questo caso la notorietà è dovuta al romanzo di Tracy Chevalier, da cui è stato tratto il film con Scarlett Johansson. Entrambi hanno avuto un tale successo da far persino cambiare il titolo dell'opera. In origine si chiamava Ragazza con il turbante».
E lei come accidenti ha fatto, unico in Europa, a ottenerla?
«Inizi 2011. Mi chiama il direttore del Kröller-Müller museum di Otterlo: “Guarda che chiudono il Mauritshuis per restauri, quindi sono costretti per qualche tempo a traslocare altrove le opere”. Mi precipito all'Aia. Buco nell'acqua: mi spiegano che la Ragazza sarà sì esposta altrove, ma solo in Giappone e negli Usa. Passano due anni. A dicembre 2012 il direttore del Mauritshuis mi scrive una mail: “Abbiamo deciso di concedere una tappa in più. Ci sono arrivate migliaia di richieste da tutto il mondo. Ma tu fosti il primo a farti vivo: se la vuoi ancora, puoi portartela in Italia”. Il giorno dopo ero in Olanda».
Quella di Bologna si annuncia come la mostra della mostre.
«I dipinti radunati attorno alla Ragazza con l'orecchino di perla saranno 40. Poi ho chiamato 25 pittori dai 40 agli 80 anni a interpretare Vermeer. Il 1° luglio ho fatto un test, 1.000 biglietti in vendita sul Web: bruciati in un'ora. Il 23 settembre abbiamo offerto 10.000 ingressi validi solo nelle prime quattro settimane di esposizione: tutti piazzati, già pagati con carta di credito. Ho presentato la rassegna agli insegnanti di Bologna: erano in 1.000. Altri 500 volevano prenotarsi, ma non c'era più posto. Da 12 anni non stampo manifesti: non servono a nulla. Mi affido solo al passaparola».
Orecchino a parte, qual è stato il suo colpaccio migliore?
«Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo di Paul Gauguin, esposto al Palazzo Ducale di Genova. Era la quarta volta che usciva dal Museum of fine arts di Boston, la seconda che arrivava in Europa. Due anni di contatti frenetici, cinque viaggi negli Usa. Il più lungo corteggiamento della mia vita. Il Boston Globe protestò perché sottraevo la tela alla città per sei mesi e mezzo».
Mai dovuto rinunciare a un pezzo?
«A due o tre Van Gogh, che per stato di conservazione non potevano viaggiare. Uno era I mangiatori di patate».
Come mai saltò la grande mostra del Louvre, annunciata per il 2008 a Verona, e lei chiese un risarcimento di 1,7 milioni di euro al Comune?
«No comment».
Mi risulta che un maneggione italiano sobillò la stampa francese, gridando allo scandalo perché il Louvre favoriva una città a guida leghista.
«No comment».
Invidia qualche collezionista?
«In Italia no, all'estero sì. Un giorno il curatore del museo di Kansas City mi disse: “Voglio farti vedere alcuni quadri”. Mi portò a casa di un industriale, appena fuori città. Passando fra vari Monet e Degas, arrivammo nella sala del caminetto: sulla cappa era appeso Il parco pubblico ad Arles, olio di Van Gogh che fino a quel momento avevo contemplato solo sui cataloghi con la didascalia “Ubicazione sconosciuta”».
Che differenza c'è fra lei e un Federico Zeri o un Vittorio Sgarbi?
«Zeri era un connoisseur, un rabdomante della pittura. Con Sgarbi ho un rapporto di amore-odio. Mi considera il suo miglior allievo, però mi detesta».
Forse perché non fa aprire le mostre di notte solo per lui?
«O perché in Italia non ti perdonano il successo? L'invidia muove il mondo».
Chi l'ha aiutata di più?
«Non ho avuto un mentore. Perciò ho difficoltà a dare consigli ai giovani che mi chiedono: “Come si fa il suo lavoro?”. Mi tocca rispondere che non lo so neppure io. È il motivo per cui ho preteso la chiusura di un gruppo su Facebook denominato Quelli che vogliono diventare Marco Goldin».
Le capita di commuoversi visitando una sua rassegna?
«Eeeh... Appena allestita, prima che entri il pubblico, sosto solitario sala per sala. Sono molto legate alla storia personale, queste mostre, un modo di presentare me stesso attraverso i quadri. Ho il privilegio di poter dare voce ai miei sentimenti, convocando, senza che loro lo sappiano, i pittori più straordinari del passato».


Mai stato colto dalla sindrome di Stendhal?
«Sì, m'è successo nella sala di Monet alla Gran Guardia di Verona. Dà un senso di vertigine. È un effetto che fa a molti, me lo dicono le guide».
Che cos'è l'arte, Goldin?
«Il racconto della vita».
(675. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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