L'uomo delle stelle, metà scienziato e metà alchimista, ha i piedi ben piantati per terra. Pur dichiarandosi ateo, Gianfranco Marcon ha fatto in modo che il suo laboratorio, a San Donà di Piave, prendesse luce da un rosone biancoceleste: «Chi arriva dagli Stati Uniti e non trova la strada, mi telefona: I see a church, vedo una chiesa. Benòn, allora vuol dire che sei arrivato». Sul soffitto ha inchiodato il mantello d'una tigre, completo di testa e zampe: «Morta di vecchiaia. Apparteneva al circo di Moira Orfei. Un'altra ce l'ho in casa, qui accanto al laboratorio. Morta anche quella, si capisce. Però ho svezzato un tigrotto. Avrà avuto meno di 30 giorni quando Walter Nones, il marito di Moira, me lo regalò perché era nato con una malformazione intestinale. Dormiva in camera con mia figlia Raffaella: credeva che fosse la sua mamma. Purtroppo non ha superato i quattro mesi. Siamo animali anche noi uomini. Mi meraviglia molto che i politici non studino la zoologia: capirebbero molte cose».
Su un cavalletto è disteso un triangolo ispido: «Il culo di un cinghiale. Agli amici lo presento come il pube della moglie di Polifemo. Qualcuno ci casca». Da un trespolo occhieggia un gallo cedrone impagliato: «Ho imparato da solo l'arte della concia e della tassidermia. Vede questa pelle? Anaconda». Dice d'essere nato con l'istinto venatorio nel sangue: «Sono stato prima bracconiere e poi cacciatore. Eppure allevavo caprioli da compagnia. E da 30 anni non sparo a un uccellino. Quando una specie è minacciata, non occorre che sia la Regione a ordinarmi quali prede lasciare in pace». Ha scritto L'ultima lontra del Piave, in ricordo della slòdra che fu uccisa nel 1947: «Allora era considerata res nullius. Faceva razzie nei pollai. La sorpresero fuori dall'acqua. Una bestia incantevole, con una pelliccia stupenda: 100.000 peli per centimetro quadrato. Mai più rivista da queste parti. Quando tornerà sulle rive del fiume sacro alla patria, vorrà dire che la natura ha ripreso a comandare, com'è suo diritto».
Se non fosse per quei cannoni metallici color panna, provvisoriamente puntati verso le travi del capannone, si stenterebbe a credere che questa sia la sede della Marcon Telescopes, forse la più rinomata industria artigiana del ramo spaziale esistente al mondo, di sicuro la prima fondata in Italia, pioniera nei telescopi a infrarossi, con ottiche in alluminio fino a 3 metri di diametro, che costano 2 milioni di euro e richiedono più di un anno di lavoro. Quella che vanta fra i propri committenti non soltanto la Nasa e la Specola vaticana, ma anche Cnr, Alenia Aerospazio, Enel, Cise, Officine Galileo. Quella che ha fornito all'Enea le attrezzature per il Programma nazionale di ricerche in Antartide. Quella che ha creato due ottiche paraboliche fuori asse per consentire alla Sapienza di Roma e all'Università di Pasadena in California di studiare la teoria del Big Bang e di ottenere, dalle immagini scattate, informazioni sulla temperatura dell'universo primordiale. Quella che a Toppo di Castelgrande, in Basilicata, ha installato il telescopio a riflessione con la più grande ottica realizzata in Italia. Quella che ha piazzato un telescopio infrarosso da 2,6 metri di diametro a 3.488 metri di quota sul Plateau Rosa, sopra Cervinia. Quella che ha attrezzato gli osservatori astronomici di Trieste, Asiago, Torino, Catania, Teramo, L'Aquila, Merate, Capodimonte, Campocatino, Coloti, San Marcello Pistoiese, Alpette, Piccioli. Quella che ha lavorato per enti scientifici internazionali, dall'European synchrotron radiation facility di Grenoble alla Cardiff University.
Marcon, 73 anni, ex sindaco leghista, già insegnante di matematica e fisica, nel 2012 ha festeggiato le nozze d'oro con lo spazio cosmico. In realtà l'azienda, in cui oggi è affiancato soltanto dal figlio Luigi, nacque nel 1948 per iniziativa di suo padre Virgilio, un autodidatta che s'era costruito il primo telescopio di tipo Newton con uno specchio rotto proveniente da una casa padronale, recuperato in discarica. «Lo sagomò utilizzando come utensile un pezzo di colonna in pietra d'Istria che avevo avvistato sott'acqua durante una nuotata nel Piave. Come smeriglio, usò la sabbia del fiume. Aveva un diametro di 12 centimetri. Pensi che il cannocchiale di Galileo Galilei, quello con le lenti in vetro di Murano che lo scienziato pisano presentò al doge Leonardo Donà sul campanile di San Marco nell'agosto del 1609, misurava meno di 7 centimetri».
Cervello fino, suo padre.
«Un artista. Era nato nel 1903. Mio nonno Luigi, contadino, pensava che studiare fosse tempo perso, per cui gli fece frequentare sino alla quarta elementare, a Ponte di Piave, classe plurima con un solo maestro per gli alunni di terza, quarta e quinta di tre Comuni. Poi lo ritirò e lo mandò nei campi: Hai imparato abbastanza. Ma a mio papà era rimasta la sete di sapere. A 20 anni, militare a Lucca, chiese al capitano se poteva mettersi in un cantuccio ad ascoltare le lezioni della scuola allievi ufficiali. Alla fine il colonnello chiese al capitano: E quel soldato veneto intrufolato tra gli ufficiali?. Si sentì rispondere: È stato il migliore del corso».
Ma restò soldato semplice.
«Ovvio. Però lo tennero come assistente. Finita la naia, tornò a fare il contadino per pagarsi gli studi serali e conseguì l'abilitazione all'insegnamento artistico nelle scuole del regno. Uno zio materno, fascista, lo iscrisse al Pnf firmando al posto suo. Lui si seccò molto, ma non si ribellò. Era talmente benvoluto dalla popolazione che il federale di Treviso lo nominò podestà di Zenson di Piave, il paese dove sono nato. Ricoprì l'incarico per 11 anni. Ma nello stesso tempo riuscì a fare il partigiano. Guidò i Volontari della libertà dopo la fucilazione, avvenuta del dicembre 1944, del loro comandante, il conte Gustavo Badini, martire della Resistenza. Salvò la vita a parecchi ebrei nascondendoli nelle case dei contadini».
Perché, finita la guerra, decise di farsi un telescopio?
«Il nonno materno gli aveva trasmesso la passione per l'astronomia. Un giorno il professor Giulio Romano, abitante a Treviso, mostrò a papà una rivista statunitense che parlava di un telescopio costruito in casa da un gruppo di astrofili. Saremo mica più stupidi degli americani, noi veneti?, commentò mio padre. E ne fece uno uguale. Da lì nacque una sfida che dura tutt'oggi. Anche se il lavoro, adesso, è parecchio diminuito. Cinesi e giapponesi sono i più agguerriti negli strumenti in serie. Non hanno la qualità dei nostri, però ti fanno morire con i prezzi. E poi giustamente il governo ha tagliato i fondi agli enti di ricerca».
Giustamente?
«Purtroppo Cnr, università e osservatori astronomici sono pieni di gente impreparata che ha tanta voglia di lavorare quanto io ne ho di essere castrato. Così tutti i soldi se ne vanno in stipendi inutili e alla strumentazione vengono destinate le briciole».
Sento che non ha perso la verve polemica del leghista.
«Da 12 anni non rinnovo la tessera della Lega, me ne sono andato senza sbattere la porta. Rappresentava il nuovo, ma poi ha perso lo slancio. D'animo ero e resto socialista: un politico dovrebbe fare gli interessi della società, quindi anche i suoi, visto che ne è parte. Sono stato sindaco di San Donà di Piave dal 1994 al 1998. Ci ho rimesso mezzo miliardo, parlo in lire, di fatturato. E ho pure scoperto che adesso mi toccano 500 euro di pensione in meno per i mancati contributi».
Si sarà fatto parecchi nemici.
«Eh, insomma. Come sindaco m'inventavo scuse d'ogni genere pur di impedire nuove urbanizzazioni. Se continui a tirar su case, qualcuno viene ad abitarle e così si altera l'equilibrio sociale della comunità».
Quanti telescopi ha costruito?
«Non li ho mai matricolati. Siamo nell'ordine delle migliaia. Ma è riduttivo parlare di telescopi. Non esiste soltanto l'astronomia. Ci sono anche ottiche che vengono montate per dare la traiettoria a un cannone, per teleguidare un missile, per controllare l'inquinamento atmosferico. O anche per evitare un altro disastro del Vajont».
In che senso?
«L'Enel ci fa tarare un telescopio su un punto fisso che sta a monte di una diga: uno scostamento, anche infinitesimale, avverte che il terreno è in movimento e si prepara una frana. Se ce ne fosse stato uno puntato verso il monte Toc, la valanga d'acqua non avrebbe spazzato via Longarone».
Il telescopio di cui va orgoglioso?
«Mah, cosa vuole, un tempo si riteneva che il non plus ultra fosse il famoso Hale sul monte Palomar, in California, che oggi invece è superato nonostante i suoi 5 metri di apertura. Però sono stato il primo al mondo a mettere a punto l'ottica innovativa che ha consentito di vedere la radiazione fossile e di studiare il Big Bang. Anche se devo confessare che questa teoria a me sa tanto di bacchetta magica, tipo E la luce fu».
Fino a che distanza mette a fuoco il più potente dei suoi telescopi?
«Fino a miliardi di anni luce, tenendo conto che in un anno la luce percorre 9.461 miliardi di chilometri. Però, se permette, la domanda ha poco senso. Io la porto qui fuori in una notte serena e nella mezza volta celeste che sta sopra la sua testa lei può vedere a occhio nudo una media di 6.000 stelle. Riesce addirittura a scorgere la galassia di Andromeda, che dista 2,5 milioni di anni luce dalla Terra».
Nota qualcosa di diverso, rispetto al passato, quando è al telescopio?
«Tante stelle e nebulose oggi non si vedono più. Troppe luci parassite. Un tempo puntavo la lampadina che era sempre accesa sul campanile di Noventa di Piave. A un certo punto non ho più visto né la lampadina né il campanile. Avevano costruito tutt'intorno. Ormai le notti sulla Terra sono illuminate a giorno. Più accende luci e più l'uomo si sente ricco, importante. Invece xe solo più mona».
È un astronomo appassionato?
«Più che altro sono un melomane. A 16 anni raggiunsi tre volte in bici la villa di Lancenigo dove abitava Mario Del Monaco. Non riuscivo a suonare il campanello. Per farmi coraggio, andai persino all'osteria di fronte a bere una China Martini. Niente. Finché capitò qui in officina, a ordinarmi un telescopio, suo fratello Marcello, maestro di canto. Così mi presentò il tenore. Siamo rimasti amici sino alla fine. Mario era in dialisi da anni, eppure cantava per me. Più sentito un Canio che interpretasse Ridi, pagliaccio come lui».
Pensa che vi siano altre forme di vita organizzata nello spazio?
«Di vita sì, organizzata non so. Penso che non siamo soli».
Quindi crede agli Ufo.
«Se non siamo soli, forse dovremmo ammettere che vi siano anche quelli. Magari andremo su Marte a controllare, perché gli Stati Uniti si sono messi in testa di cercare pianeti da colonizzare, anziché limitarsi a rispettare quello su cui viviamo. Ma, anche disponendo di un mezzo che si muove alla velocità della luce, per arrivare su Alfa Centauri, che è il sistema stellare più vicino al sistema solare, c'impiegheremmo una quarantina d'anni ad andare e una quarantina d'anni a tornare. Mi spiega lei a che servirebbe?».
Il cosmo sarà infinito oppure no?
«Non ho il metro per misurare. I cinque sensi nello spazio non bastano. Lascio agli scienziati queste faccende».
Quindi all'astrofisica Margherita Hack.
«Ho lavorato per l'osservatorio di Trieste quando lo dirigeva lei. Xe atea patòca (marcia, ndr). Come me. Il curato di San Donà di Piave ebbe la brillante idea d'invitarla per una conferenza. E di pagarla, pure. Mi telefonò preoccupato monsignor Angelo Dal Bo, parroco del duomo, affinché pregassi la scienziata di contenersi. Le dissi una bugia: guarda che sono stato io a proporre ai preti di chiamarti a parlare qua, perciò cerca di non farmi fare brutta figura. Avrebbe dovuto sentire come riusciva a divagare per non urtare la sensibilità dei credenti».
Che cosa prova scrutando le stelle?
«Niente, è come se fossi al microscopio.
(629. Continua)
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