Soldi ai partiti, tre miliardi in vent'anni

Tra i quesiti dei radicali anche l'abolizione del finanziamento pubblico. Che gli italiani hanno già "soppresso" nel 1993

Roma - Il finanziamento pubblico ai partiti è come l'araba fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri. Nel 1993, in piena tempesta di Tangentopoli, gli italiani pensavano di avercela fatta. Si erano recati in massa alle urne per votare il referendum proposto dai Radicali per abrogare la legge del 1974 e le successive modifiche che regolavano la ricca mancia di Stato ai partiti: l'affluenza al voto era stata notevole (77 per cento) e i «sì» avevano vinto nettamente (90,30 per cento). Fu una vittoria di Pirro. Perché a distanza di vent'anni i partiti sono ancora attaccati alla mammella dello Stato con lo strumento dei rimborsi elettorali. È di qualche mese fa l'ultima erogazione di 56 milioni di euro relativi alla prima rata per le spese sostenute per le elezioni politiche per la Camera, per le Regionali e per le Europee del 2009, parte di una prebenda annuale che ammonta a 91 milioni.

E così i Radicali ci riprovano. E tra i dodici referendum per i quali stanno raccogliendo le firme (obiettivo 500mila in tre mesi) c'è anche quello che interviene sulla legge 96 del luglio 2012 che ha creato un fondo unico per finanziamento pubblico e rimborso spese elettorali (70 per cento del totale) e un altro per il cofinanziamento dello Stato in aggiunta alle donazione private (30 per cento). Il quesito propone l'abrogazione dell'intero meccanismo istituito dalla nuova legge e quindi di tutte e tre le tipologie di contributi, conservando in vita soltanto le detrazioni fiscali per le erogazioni liberali ai partiti.
La storia del finanziamento pubblico dei partiti è complessa e dimostra come la politica trovi sempre modo di finanziarsi a spese dei cittadini. Introdotto dalla cosiddetta legge Piccoli nel 1974 con lo scopo nobile di evitare la collusione della politica con i grandi poteri economici, questo strumento sopravvive a un primo referendum abrogativo nel 1978: l'antipolitica è una formula ancora sconosciuta e la percentuale dei favorevoli all'abrogazione si ferma al 43,6 per cento.

Incoraggiati dallo scampato pericolo i partiti decidono di esagerare e nel 1981 raddoppiano le cifre dando in pasto all'opinione pubblica la polpetta avvelenata di un sistema di controllo in realtà mai divenuto effettivo. Poi, con il ciclone di Tangetopoli, il clima cambia e il referendum del 1993 di cui abbiamo già parlato sembra rivoluzionare tutto. Sembra, appunto. Pochi mesi dopo la cancellazione del finanziamento pubblico il legislatore, con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993, modifica la norma sui rimborsi elettorali, definiti «contributo per le spese elettorali», facendone uno strumento compensativo di quello che era venuto a mancare ai partiti. Oplà.

Nel 1997 arriva la legge sul 4 per mille, che permette ai cittadini di devolvere una quota della propria dichiarazione dei redditi ai partiti. Pochi lo fanno, ma due anni dopo una legge spariglia tutto: si torna di fatto all'antico con erogazione senza giustificativi di soldi a tutti i partiti che alle elezioni superano il 4 per cento dei voti. I partiti si fanno audaci, e nel 2002 il finanziamento diventa annuale e va anche ai partiti che superano l'1 per cento. Nel 2006 addirittura si introduce la regola per cui i partiti prendono i soldi per tutta la legislatura anche se essa finisce prima.

Qualcuno ha calcolato che dal 1994 a oggi i partiti si sono spartiti in totale 2,3 miliardi. Alla faccia di quei nove italiani su dieci che vent'anni fa avevano detto che non volevano più dar loro soldi.
(8 - continua)

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