Politica

La solitudine di Bersani rottamato dai soliti noti

Oggi la Direzione che archivierà la sua leadership. Bindi e D'Alema si smarcano dal segretario che hanno sempre sostenuto. Come Vendola

Capannello intorno a Pier Luigi Bersani
Capannello intorno a Pier Luigi Bersani

Davvero Pier Luigi Bersani è un uomo a cui non è stato risparmiato nulla: sabato pomeriggio, subito dopo la rielezione di Napolitano, e dunque non appena le sue dimissioni dalla segreteria sono diventate operative, la prima persona che s'è ritrovata in ufficio è stata Anna La Rosa. «È passata per un saluto», sembra abbia detto il portavoce dell'ex segretario. Che però non ha voluto riferire i contenuti del colloquio. Poi, per tornare a casa, le forche caudine di un volo per Milano farcito di parlamentari festanti del Pdl. E infine una domenica di silenzio e solitudine, rabbia e rammarico, prima di tornare a Roma per assistere alla più sontuosa e argomentata sconfessione della sua intera linea politica: il discorso di insediamento di Re Giorgio II.

Guai ai vinti, purtroppo: ma così vanno le cose, in politica e non solo, e sebbene spiaccia sempre veder cadere rovinosamente nella polvere chi s'apprestava a scalare il cielo, va detto senza cattiveria che è lui, è proprio Bersani il capomastro dell'implosione del Pd. Per la linea dell'abbraccio a tutti i costi con Grillo, seguita ostinatamente e senza contromisure né «piani B». E per un certo modo di guidare il partito che tutti oggi definiscono autistico, quando non peggio: inavvicinabile da chiunque non appartenesse al ristrettissimo cerchio del «tortellino magico» - Errani, Migliavacca, Gotor - Bersani non ha mai vinto perché non ha voluto convincere nessuno.

Per un curioso paradosso, il suo destino si apre e si chiude sotto il segno di Beppe Grillo. Nel 2009, quando si candidò alla segreteria e il Pd organizzò le primarie, Grillo chiese la tessera del partito per potervi partecipate. L'iscrizione fu poi annullata, e proprio in quell'occasione il lungimirante Fassino spiegò a Grillo che «se vuol fare politica, si faccia un partito e provi a prendere i voti». Bersani vinse le primarie, e Grillo fece il suo partito. Si sa come poi sono andate le cose.

Se Bersani è l'artefice politico della sua propria sconfitta - e dunque va un po' ridimensionata la battuta del Cavaliere sull'avviso di garanzia per «strage di segretari» - va detto che un aiuto non indifferente gli è venuto dai suoi compagni. Riletta retrospettivamente, la pirotecnica partita del Quirinale è stata anche - e forse, chissà, soprattutto - una gigantesca caccia alla lepre: dove la lepre era Bersani, e i cacciatori gli oligarchi che quattro anni fa l'avevano incoronato. Marini e Prodi non saranno certo in cima alle simpatie dei democrats, ma se un numero così grande di parlamentari Pd non li ha votati è perché voleva votare contro Bersani.

A operazione compiuta - Bersani si dimette venerdì sera accusando i suoi deputati di essere «traditori» - subito comincia il rito autopropiziatorio dello scaricabarile. Sebbene la Direzione del Pd avesse approvato all'unanimità (con la sola eccezione di Umberto Ranieri) e in diretta streaming la linea del segretario, la colpa della catastrofe improvvisamente è diventata soltanto sua. «Il mio dissenso risale ad alcuni mesi fa», gongola Rosy Bindi (peccato che nessuno se ne fosse accorto), prima di scatenare una gragnuola di colpi: la campagna elettorale «semplicemente non è stata fatta», il nuovo gruppo parlamentare «non ha consapevolezza del proprio compito», con Grillo bisognava smetterla subito, e Prodi - è l'accusa più pesante, la più infamante - è stato mandato al massacro senza alcuna preparazione (D'Alema ieri sera a Piazzapulita ha sostenuto la stessa tesi).

Prima e dopo la Bindi, il fuggi fuggi è generale. Vendola non ci pensa un attimo a buttare nella spazzatura il solenne accordo sottoscritto di fronte a nove milioni di elettori (e che ha fruttato ad un partito del 2% la presidenza della Camera) e proclama l'imminente nascita di una nuova «cosa di sinistra», la sesta stella (rossa) da portare in dono al nuovo profeta, Beppe Grillo. Con lui andranno un po' di deputati girotondini come la Puppato e Pippo Civati, che neanche una settimana fa si era candidato alla segreteria del Pd. E potrebbe seguirli persino Alessandra Moretti, arruolata da Bersani come portavoce dopo il riuscito casting di Ballarò e fra le prime, nel gioco infernale del Quirinale, a pugnalare il segretario rifiutandosi di votare per Marini.

Più scaltri, i Giovani turchi - che del bersanismo erano la guardia d'onore - hanno già stretto un accordo di ferro con Matteo Renzi, lasciando l'incauto Fabrizio Barca a raccogliere i boat people piddini che veleggiano verso Vendola e Grillo. Per Orfini e per Fassina, che almeno hanno il pregio del realismo, la leadership di Renzi è assodata: restano soltanto da definire i particolari, cioè l'assetto che uscirà dal prossimo, imminente congresso.

Solo come non lo è mai stato, Bersani si presenta oggi a una Direzione che lo ha già archiviato e che guarda altrove, mentre i fedelissimi si aggirano sgomenti fra le macerie di un potere ormai dissolto.

Riceverà forse l'onore delle armi, qualcuno pronuncerà parole di circostanza e un lungo applauso, liberatorio e spensierato più che commosso e riconoscente, chiuderà per sempre il sipario.

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