RomaSe n'è andato nell'amatissima casa di corso Vittorio Emanuele 326, confine ideale tra uno Stato «cui va dato ciò che ad esso spetta, come insegna il Vangelo» e il Regno cui intimamente sentiva di appartenere. Senza complessi, perché «un cattolico militante deve servire la Chiesa». Trenta metri più in là il Tevere, poi le vecchie prigioni di Castel Sant'Angelo, la magniloquente via della Conciliazione che il Duce inventò per condurre i pellegrini verso San Pietro. Ferita urbana che gli doleva, ché la gloria del rappresentante di Cristo in terra doveva piuttosto sgorgare sorprendente tra le catapecchie di Borgo Pio.
Il viaggio più lungo di Giulio Andreotti è cominciato alle 12,25 di ieri, e non s'è trattato né di uno strappo né di una sorpresa, in quanto lui stesso l'aveva preparato meticolosamente, come ogni cosa. Da mesi ormai non usciva di casa, da quando i suoi acciacchi cardiaci gli avevano segnalato l'approssimarsi dell'ora. Così come non può essere considerata sorprendente la decisione del senatore a vita di rifuggire dalla camera ardente di Palazzo Madama e di voler far celebrare i funerali in forma privata presso san Giovanni dei Fiorentini, la Chiesa dei primi passi mattutini. Ma forse «ferita» sì, quella che lo Stato gli aveva inferto con i processi per mafia, per un presunto bacio a Totò Riina. «Ma a me gli uomini non piacciono», ebbe a difendersi con ironia. Dietro la quale, però, si nascondeva la ferita mai sanata di un giovane che avrebbe voluto diventare magistrato. «Il corso prevedeva la frequenza obbligatoria e mi dispiacque rinunciare. Ma forse è stato meglio così. Comunque non avrei mai incriminato un innocente».
La rivendicazione delle propria innocenza, al di là anche delle risultanze processuali di due incontri ravvicinati con Stefano Bontate, fu ferita insanabile e ultima ragione di vita. Motivo di disincanto per il re dei disincantati. A voler pensare bene, frutto di un'immedesimazione nella ragion di Stato che mai avrebbe immaginato di poter finire sotto processo. Di un realismo che era adesione totale alla vita, i giallorossi a Testaccio e i cavalli a Capannelle, la pletora di clientes e i 3.500 faldoni (circa 600 metri lineari) dell' archivio personale, oggi blindato nel caveau dell'Istituto Sturzo. Vita che è sangue e merda, come disse Formica della politica. E per Andreotti la politica era la vita e viceversa. Quando ancora frequentava Palazzo Madama, anche per sedute futili che non gli impedivano di riempire di fitta calligrafia il libretto degli appunti, davanti a un cappuccino con hag, il capo della cosiddetta gens Giulia - genia antropologica prima che affarismo correntizio - volle aprirmi piccoli squarci nell'impenetrabilità dell'essere. «Dovremmo sempre evitare di associarci ai bollettini dei buoni e dei cattivi: anche perché poi magari si resta fregati, quando i buoni diventano cattivi o viceversa». Non è filosofia spicciola come sembra. Dietro c'è la millenaria cultura della tolleranza della Chiesa, l'idea dell'eterno ritorno delle umane vicende, del destino costretto a posarsi sulle fragili spalle dei peccatori. Quando gli chiesero se, in qualità di Belzebù, avesse compilato una lista di nemici da mandare all'inferno, rispose: «Non spetta a me. Io posso solo, romanescamente, mandare in quel posto...».
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