Alla fine a dire sì o no alla decadenza di Silvio Berlusconi non sarà la giunta assediata dal bivacco dei media, ma l'assemblea del Senato con voto segreto. Qualche settimana fa scrissi un articolo sull'orgoglio del Senato, sul primato del Parlamento, sul dovere del Senato a dare prova di rabbiosa autonomia, di privilegiata libertà, di riscossa nei confronti dell'antiparlamentarismo.
Ieri ho cominciato a leggere con una punta di diffidenza l'articolo di Feltri sulla «bontà» dell'attuale Costituzione, in risposta alla crociata conservatrice del Fatto Quotidiano. Diffidenza che si è subito dissipata perché Feltri ricorre all'espediente retorico di dare ragione al quotidiano di Padellaro sulla bontà della Carta costituzionale, per sostenere che tanto patriottismo costituzionale deve ricondurre alla Carta originaria, non a quella già manomessa. Io, come qualche lettore ricorderà, vorrei che la Carta fosse riscritta da capo a cominciare dall'articolo primo per affermare che la nostra Repubblica è fondata non sul lavoro - cosa che non significa nulla, visto che non si dice chi dovrebbe fornire i posti di lavoro, se il lavoro fosse davvero un diritto - ma sulla libertà e la dignità del singolo cittadino. Feltri difendeva la versione originale della Costituzione che conteneva la tutela dei rappresentanti del popolo, per impedire che fossero mangiati vivi da poteri che non discendono dalla legittimazione democratica, ma dalla legittimazione burocratica, compresa quella dei magistrati.
La tutela della libertà politica degli eletti del popolo è un cardine di tutte le democrazie: il Parlamento non concede i suoi figli agli sbirri, non concede i suoi eletti alle galere, non abbandona i suoi membri all'esecutore di giustizia i cui carpentieri erigono il palco sotto le finestre del Palazzo. Il nostro Parlamento non cedeva. Non cedeva il deputato comunista Moranino che dopo la fine della guerra aveva assassinato delle donne che avrebbero potuto testimoniare contro di lui, ma c'è di più: quando Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi furono condannati nel processo che li vide imputati per aver sostenuto la tesi di un colpo di Stato ordito dal presidente Segni e dal generale De Lorenzo nel 1964, entrambi furono consegnati alla protezione del Parlamento, affinché non andassero in galera, dall'allora segretario del Partito socialista italiano, Giacomo Mancini. E quella sottrazione alla galera fu considerata allora una riaffermazione energica e orgogliosa del primato del Parlamento.
C'è di più: nel maggio del 1972 il Manifesto candidò Pietro Valpreda alle elezioni politiche per farlo tornare libero dopo tre anni di detenzione con l'accusa di strage per l'attentato di piazza Fontana. L'anarchico non venne eletto ma uscì ugualmente di galera grazie a una legge votata dal Parlamento nel dicembre di quello stesso anno e che venne ribattezzata appunto «legge Valpreda. Resta alla storia il fatto che il Parlamento riuscì a sottrarlo alla prigione.
Quando eravamo una democrazia l'immunità non era considerata uno sciocco privilegio della «casta», ma una prerogativa del popolo, lo scudo con cui il cittadino che porta su di sé il sacro peso della delega del sovrano elettore, si difende dai poteri esterni, dal braccio giudiziario dello Stato o da quello dei suoi uffici, polizie, servizi segreti. Il parlamentare era sacro perché il Parlamento è sacro, se anche la democrazia è sacra. Se la libertà del parlamentare non è più sacra, allora il Parlamento è uno zombie e la democrazia è già morta.
La sacralità del Parlamento è stata da tempo stuprata e dunque siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia.
I parlamentari sono rincorsi dai facinorosi nelle strade. La leggenda nera del debito pubblico causato dalle auto blu è stata somministrata in dosi da cavallo al popolo con gli sessi effetti manzoniani della caccia all'untore e della colonna infame. Assaltare il Parlamento e persino scalarlo come l'albero della cuccagna per coprirlo di drappi e scritte, è diventato uno sport. Invocare la galera, anziché la libertà, è diventato uno stile di vita, anzi di morte del Parlamento.
Tuttavia qualche speranza c'è ancora: abbiamo assistito pochi mesi fa a una salutare ribellione del Parlamento quando, durante le elezioni del presidente della Repubblica, ben 101 patrioti parlamentari del Partito democratico rifiutarono di eleggere Romano Prodi. Fu un atto di vitalità del Parlamento. Fu un atto di normalità del Parlamento.
Fra poche settimane sarà la stessa aula del Senato, qualsiasi cosa abbia deciso la giunta, a decidere della sorte del suo membro più votato. E lì si varrà la sua nobilitate. Lì si varrà il suo orgoglio, la sua indipendenza.
Che faranno i cento e uno che ebbero coraggio pochi mesi fa? Che faranno tutti coloro che sanno che l'unica strada percorribile per questo disgraziato e ingannato Paese è quella di lasciar vivere il governo in carica e dargli la chance di accompagnare i tenui indizi di una piccola ripresa che potrebbe essere distrutta e calpestata da un trauma evitabile? Avranno i nostri eroi di Palazzo Madama la forza interiore, il fegato e la volontà politica di dire no? Di opporsi gridando «Viva il Parlamento»?
Questa è la speranza non di Silvio Berlusconi, ma la speranza ultima della democrazia parlamentare. Perché se il Senato non saprà dire di no, se voterà come il pastore del gregge ordina, allora la sorte è segnata perché se le volpi - come diceva Craxi - finiscono i pellicceria, le pecore finiscono in macelleria.
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