Tira una strana aria, quest’anno. Siamo già al 5 dicembre, ma ancora non si muove niente: cos’è, non facciamo più la guerra del presepe? Evidentemente c’è sotto qualcosa. L’intero armamentario della tradizione natalizia si presenta perfettamente in regola. Tutto a posto, con sincronismo esemplare. I centri commerciali espongono luminarie da dopo Ferragosto, le vie del centro sono addobbate da fine ottobre, le famiglie un po' trafelate hanno comunque ultimato gli allestimenti in tinello. In azione anche quelli che temono di restare indietro con gli auguri: se non ci sentiamo prima, tante buone cose a tutta la famiglia. Inutile specificarlo, perfetta pure la macchina pubblicitaria: gli spot dei panettoni, in un tripudio di bambini dai boccoli d’oro e di nonni euforici, martellano con cadenza scientifica dai teleschermi, quanto meno da quelli che ancora trasmettono qualcosa dopo il nefasto passaggio al digitale terrestre.
Non ci sono dubbi: manca solo il rito più recente e più sentito. Non c’è la guerra del presepe. Dobbiamo stare in pensiero. Nessuna segnalazione di presidi politically correct che emanano la classica circolare nel rispetto delle diversità religiose. Non ci sono maestrine d'asilo col coltello tra i denti, pronte a incatenarsi nell’atrio se appena qualcuno si azzarda a tirare fuori il bue e l'asinello, ovviamente a tutela dei poveri bambini musulmani, induisti e scientologysti, che potrebbero subire dei traumi. Non ci sono genitori che riscoprono l'ardimento del Sessantotto per arrestare le insidie conservatrici e integraliste della natività, fosse pure in gesso e muschio. Non si sentono più quelle solenni motivazioni che scuotono le coscienze, del tipo «è finita l’epoca della scuola confessionale» (e pazienza se il presepe rimane una delle poche cose al mondo che non hanno mai fatto male a nessuno).
In questo strano vuoto, inevitabilmente disinnescati anche gli attori di contorno, sociologi e teologi, sondaggisti e tronisti, lambertisposini e neuropsichiatri, analisti e giuristi, da anni impegnatissimi nelle due trincee, presepe sì e presepe no. Di più: fermi ai box persino gli intrepidi crociati del Bambinello, che per undici mesi se ne impippano bellamente di lui, ma che quando c'è da menare le mani a difesa delle radici cristiane sono i primi a rimboccarsi le maniche.
Atmosfera irreale. Basta guardarsi indietro e sfogliare le raccolte di giornale degli ultimi anni: a quest'ora eravamo già in piena bagarre. Al 5 di dicembre la guerra del presepe era tra i primi argomenti in qualsiasi programma tv più o meno serio, del mattino e del pomeriggio. Dove sono finiti tutti quanti? Cos'è questo silenzio? Non possiamo pensare che presidi e maestrine siano tutti distratti dalla riforma Gelmini. Mi guardo in giro e sinceramente mi preoccupo. Sì, c'è sotto qualcosa.
Certo, potrebbe pure darsi che finalmente il buonsenso abbia trovato il modo di riemergere. E' persino bello pensare che l'armonia della ricorrenza, cristiana però universale, in qualche modo sia riuscita finalmente a placare gli animi, ristabilendo un minimo di gerarchia tra le nostre battaglie ideali. Ma temo che queste siano soltanto illusioni. Ottimismo gratuito.
Guardandomi in giro, piuttosto, è forte la sensazione che abbiano «vinto loro». Ho cioè il timore che la guerra del presepe non sia ancora scoppiata, e che mai più scoppierà, semplicemente perché una delle parti in causa ha alzato bandiera bianca.
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