La stonatura di Fini che commemora il nemico De Gasperi

Alle persone scomparse è buona usanza rendere omaggio un po' da parte di tutti, anche da quanti in vita non hanno nutrito nei loro confronti sentimenti di particolare amicizia o addirittura da quanti le hanno contrastate. La regola non si applica al caso dei personaggi pubblici. Ogni gesto di omaggio alla loro memoria assume infatti un inevitabile significato politico. Gli avversari possono tutt'al più testimoniare la loro stima alla coerenza, all'onestà, alla dirittura morale, alla buona fede dell'antico rivale. Non s'è visto mai uno strenuo oppositore incaricarsi di commemorare o addirittura di esaltare in una pubblica sede l'avversario scomparso.
Fa specie perciò aver dovuto assistere all'auto-candidatura di Gianfranco Fini per tenere niente meno che una lectio magistralis su Alcide de Gasperi in occasione della commemorazione ufficiale che si tiene in questo fine settimana nel suo paese natale per il quarantottesimo della scomparsa dell'illustre uomo politico trentino. Che la terza carica dello Stato si inchini alla figura di uno statista e di un democratico universalmente riconosciuto come ineguagliabile nella lunga storia repubblicana è doveroso, oltre che meritevole.
Suscita invece una certa sorpresa, se non vero sconcerto, vedere che l'ultimo segretario dell'unico partito neofascista dell'Europa postbellica ininterrottamente presente in Parlamento si proponga a primo interprete del magistero politico del principale costruttore dell'Italia democratica, figura peraltro di rara austerità morale e di costumi così parchi (famoso il cappotto rivoltato con cui si presentò a Parigi alla Conferenza della Pace) da renderlo inattuale nell'Italia della Casta.
Nessuno nega il merito dell'allora segretario del Msi di aver impresso nel 1993-'94 una svolta radicale al suo partito, addirittura di averlo liquidato per rifondare una destra finalmente reintegrata nell'Occidente democratico.
Ciò di per sé non lo abilita, però, a ergersi a campione di una causa e di una parte - il liberalismo moderato di matrice cattolica - avversata per un intero cinquantennio. Le casacche si possono cambiare con facilità, come abbiamo fatto fin troppo ricca esperienza in questi ultimi anni. Non è così per le identità politiche.
Queste non sono acqua che scorre via senza lasciare traccia. Sono viceversa l'asse portante della militanza politica. Ovviamente, anch'esse si possono dismettere ma costano un sofferto percorso.
La conversione politica non si compie, infatti, con una folgorazione. È il compimento di un lungo lavoro critico di riconsiderazione del proprio passato e di riprogettazione del proprio futuro. Francamente, non sembra questo il caso di Fini.
Ancora al tornante degli anni Novanta proponeva ai suoi il compito storico di preparare il «Fascismo del Duemila». Immerso nell'impresa prometeica di liberare la destra dal fardello del mussolinismo non si peritava di proclamare (aprile 1994) il Duce «il più grande statista del secolo».

Per non dire del retaggio omofobico di marca fascista tradito - siamo già nel 1998 - nell'escludere perentoriamente la possibilità per un omosessuale di svolgere una funzione educativa con i giovani.
Dal neofita ci si aspetta, quanto meno, un po' di umiltà, non la smania di mettersi in prima fila per applaudire uomini e idee che per una vita si sono osteggiati.

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