Tabacci sul ring della sinistra dopo una vita in seconda fila

Tabacci sul ring della sinistra dopo una vita in seconda fila

Inseguendo il successo che meritava e che gli è sempre sfuggito, l'inquieto Bruno Tabacci ha deciso di farsi male da sé. Si appresta, infatti, a un funambolico salto carpiato per il quale non ha più l'età. A sessantasei anni, dopo una vita democristian-centrista, con lievi sconfinamenti a destra, vuole ora presentarsi alle primarie della sinistra contro Bersani e Renzi e Vendola. È l'estremo tentativo di farsi universalmente conoscere, poiché soffre da anni per una notorietà limitata a ristretti circoli di estimatori - tra i quali chi scrive -, salottini televisivi, incalliti lettori di giornali capaci di reperire a pagina trentuno il trafiletto che lo riguarda.
Com'è a tutti noto - lo dico senza ironia - Tabacci milita nell'Api che, come ognun sa, è il partito di Rutelli. Si tratta di una formazione politica centrista valutata sullo zero virgola, radicata soprattutto nelle oasi lacustri della Calabria. È chiaro che con una simile (non) forza alle spalle, Bruno deve arrangiarsi da sé se non vuole solo scaldare il banco di Montecitorio. E non è il tipo.
Perciò, già un anno fa accettò l'invito del neo sindaco rifondazionista di Milano, Giuliano Pisapia, di fargli da assessore al Bilancio. Così, di colpo, Bruno si trovò nella gerla un'altra poltrona oltre a quella di deputato che la legge gli consente comunque di mantenere. E se lo dice la legge, perché contraddirla? Il trasloco dell'attività a Milano - da sempre sua città d'elezione - gli dette una visibilità moltiplicata a parziale risarcimento dalle frustrazioni che, come vedremo, accumulava da anni. L'accordo con Pisapia non era invece da considerarsi un passaggio politico dal centro alla sinistra. Tabacci entrava nella giunta ad personam, come tecnico, orgogliosamente dc e centrista. «Se mi vuoi così, bene. Se no, ti saluto e sono», questo il patto con Pisapia.
Superfluo aggiungere che, sia pure con i toni scorbutici che gli sono propri, l'assessore al Bilancio sta lasciando un'impronta da par suo. Basti dire che, con l'ispirazione visionaria del demiurgo, vuole realizzare una megalopoli che accorpi, nei servizi essenziali, Milano, Torino e Genova: pianura, monti e mare, quasi una repubblica a sé. Tabacci si batte, infatti, per unificare le aziende energetiche e di trasporto collettivo dei tre capoluoghi con l'obiettivo di trasformare entità, che separatamente sono bruscolini, in giganti del settore. Ovviamente queste vedute avveniristiche sono poco più che sopportate dalla giunta di sinistra milanese e guardate con fiero sospetto dal sindaco ex comunista di Torino, Piero Fassino, e da quello vendoliano di Genova, Marco Doria. È l'abisso che separa il nostro Bruno dalla morta gora del personale politico corrente, soprattutto se marxisteggiante.
Il fluire nella sua mente di intuizioni grandiose, ha rafforzato in Tabacci la convinzione che il proprio sottoutilizzo sia una perdita per la Nazione intera. È uno spreco - pensa - barcamenarsi tra uno scranno di Montecitorio e un assessorato milanese quando ha idee a iosa per dare uno scrollone a questa Italia piegata in due come un artritico all'ultimo stadio. Ecco perché vuole misurarsi nella vasta platea delle primarie, le quali, comunque vada, daranno ai suoi destini una dimensione peninsulare.
Questa decisione ha come prima conseguenza il formale spostamento a sinistra suo, di Rutelli e dell'Api. La seconda è che Tabacci, entrando nell'orbita Pd, cambia pelle. Era stato dc o centrista, per un periodo alleato con la destra, mai però si era mescolato con i post comunisti. La terza è che, partecipando alla lizza, rischia un bagno con i fiocchi. A petto di Bersani, che ha dietro il partito, di Renzi, che passa per la Maga Magò, e di quel santone di Vendola, l'asburgico Bruno - occhi di ghiaccio e gesti rigidi - sembra il pollo da spennare.
Bruno Tabacci è un prodotto di nicchia. È sulla breccia da trent'anni, è serio, preparato e di gradevole aspetto, ma la sua popolarità è rimasta ai livelli del chinotto rispetto alla Coca Cola. A nulla valse che Floris si sia dannato a invitarlo a Ballarò una settimana sì e l'altra pure per attaccare il Cav. Non ha sfondato. Il pubblico lo ha preso per una comparsa antiberlusconiana, ignorando perfino che fosse un politico su cui riversare eventualmente preferenze. La prova è che quando Bruno si presentò nel 2006 alle amministrative di Milano, il suo nome disse così poco a tanti che racimolò 1.235 voti, nonostante fosse stato addirittura Governatore della Lombardia negli anni Ottanta.
E qui è d'uopo qualche ragguaglio sulla sua vita.
Vagì a Quistello, in quel di Mantova, si laureò in Economia a Parma e tra le due date si iscrisse alla Dc. Scelse la corrente di sinistra, prima accanto a Giovanni Marcora, poi a Giovanni Goria. Di entrambi diresse l'ufficio studi nei ministeri economici di cui erano titolari. Entrò poi nelle grazie di Ciriaco De Mita che lo volle Governatore lombardo a soli quarantuno anni, nel 1987. Dovette però lasciare poco dopo, vittima delle leggendarie baruffe tra De Mita e Craxi. A chiederne la testa fu infatti Bettino, cui Tabacci non perdonò mai lo sgarbo. E poiché il Cav era all'epoca amico di Craxi, l'antipatia per Bettino si estese anche a lui.
E qui arriviamo al nocciolo dei suoi problemi. Bruno detesta il Cav con tutta l'anima. Non lo sopporta. Lo considera un usurpatore che doveva tenersi lontano dalla politica, arte sopraffina per menti elette, inadatta ai bauscia. Non è certo - data la levatura tabacciana - banale invidia per il nababbo o astio sinistrorso per l'azienda del Biscione. Tant'è che ha ottimi rapporti con Fedele Confalonieri, alter ego del Cav. È questione di pelle. Il Berlusca gli fa venire l'orticaria. Meglio: lo fa uscire di senno. Un po' ha cercato di conviverci perché grazie a lui, che aveva salvato Casini, era potuto risorgere a sua volta. Accusato falsamente di tangenti negli anni Novanta, Tabacci abbandonò a lungo la politica fino alla piena assoluzione. Quando ci tornò, trovò ricetto nell'Udc casiniana e nel 2001 fu eletto deputato con il centrodestra. Fu addirittura presidente di commissione per l'intero quinquennio berlusconiano. Il disgusto però prevalse. Un giorno - intorno al 2007 - gettò la maschera e iniziò a dare il tormentone a Pierferdy: «Molliamo quest'individuo. Non degradiamoci». E se non era Casini, era Cesa. Poiché i due tergiversavano, uscì una prima volta dall'Udc, poi ci rientrò, poi uscì di nuovo. Passò con Rutelli, divenne una macchietta antiberlusconiana e, pur di non pronunciare il nome di Berlusconi, cominciò a chiamarlo Arcore. «Io con Arcore non intendo avere nulla a che fare», ripeteva.
Che è come se noi chiamassimo Tabacci, Quistello, dal borgo natìo.

Insomma, sprecò il suo tempo a dire no a tutto per accorgersi adesso, in età di pensione, che null'altro gli resta che sfidare Bersani per consolarsi, con un raggio di luce riflessa, di essersi segato le gambe da solo.

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