RomaSolido e merlato, quasi fresco persino, immerso comè nel verde e innalzato a 86 metri sopra Roma. Il Cavaliere è nel «suo» castello. Suo per una sola estate, perché la principessa Borghese non lo vende, al massimo glielo presta «volentieri». Silvio Berlusconi ci si trova bene. «Unoasi a dieci minuti dal centro», perfetta per una «domenica di lavoro», per preparare le prossime mosse. Quei muri spessi, quelle armature, quei soffitti di legno. Quellaria di maestosa e armonica robustezza. Del resto la fortezza di Tor Crescenza sta lì dal XV secolo, ha fatto da sfondo pure ai quadri di Lorraine e Poussin, ne ha viste di tutti i colori. Difficile che crolli proprio ora. Semmai è laltro castello di Berlusconi, quello di Palazzo Chigi, a sembrare in questi giorni molto meno solido.
Il braccio di ferro sulle intercettazioni. La guerra corsara ingaggiata da Gianfranco Fini. Lattivismo della magistratura. Le solite liti sulla manovra. Gli sguardi di traverso con Giulio Tremonti. Il pressing della Lega che vuole stringere sul federalismo. E le grandi manovre per accelerare il dopo-Silvio, mettendo in piedi un governo tecnico o di transizione, come hanno proposto DAlema e Casini. Intendiamoci, il premier non vuole farsi pensionare, il patriarca non si è per niente rassegnato allautunno. Anzi, anche dal castello, dà battaglia e parla di golpe: «Ci vogliono indebolire, ci infangano per ribaltare il governo per via giudiziaria».
Il Cavaliere infatti è convinto di avere in mano larma decisiva: le elezioni anticipate. Berlusconi non vorrebbe usarla. Spera ancora di trovare un accomodamento decente con Fini, di portare a meta il disegno di legge sulle intercettazioni, di portare fuori il Paese dalla crisi e di dare il via alla seconda parte del programma. Dimettersi per andare al voto comporta poi qualche rischio: la palla passerebbe al Quirinale e non è detto che durante le consultazioni non escano fuori i numeri di unaltra possibile maggioranza. In quel caso Napolitano sarebbe costretto a dare lincarico a un altro.
Ma, in caso di necessità, se il presidente del Consiglio non riuscisse a stringere Fini in un angolo, a Berlusconi le elezioni forse basterebbe minacciarle: tra i tanti che gli danno la caccia, quasi nessuno infatti ha intenzione di farsi contare. Non Fini, che oltre alla presidenza della Camera perderebbe buona parte del suo ex partito. Non certo il Pd, assolutamente diviso e impreparato a una competizione elettorale. E nemmeno Casini, che deve ancora costruire la sua terza via. Solo lIdv vuole votare subito, per fare il pieno a sinistra. E magari la Lega, se non avrà il federalismo, per fare il pieno al nord.
Allo stato, appare comunque unipotesi remota. Innanzitutto perché i finiani tireranno ancora la corda senza però romperla: non faranno lerrore di votare gli emendamenti del Pd sulle intercettazioni. «Non siamo nati ieri», spiega Italo Bocchino, deludendo il responsabile democratico alla giustizia, Andrea Orlando: «Ci aspettavamo che gli eroici finiani resistessero almeno qualche ora». Poi, pure il fronte per governo di transizione sembra piuttosto diviso. Il Pd vorrebbe lasciare fuori il Cav. «Sono venuto in America per raccontare non solo cosa faremo se ma cosa faremo quando», dice criptico Pierluigi Bersani da New York. Enrico Letta chiede al premier di «passare la mano» ma Casini spegne gli entusiasmi e ha in mente unaltra cosa: «Un governo Tremonti non è credibile. Cè uno scontro molto forte nella maggioranza però, piaccia o no, il Pdl è Silvio Berlusconi. Confidare in Bruto perché tolga di mezzo Cesare è una scorciatoia impraticabile».
In questo quadro, è probabile che finisca tutto nel nulla e che il Cavaliere, tra un castello e laltro, resti saldo in sella. E in serata, Berlusconi si concede una passeggiata in città alla galleria Sordi e poi, seguito dagli uomini della scorta, rientra a Palazzo Chigi.
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