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Toh, Bersani vuole la patrimoniale

Nella carta d'intenti che il Pd presenta oggi c'è la tassa sui ricchi. Come se non bastassero quelle dei Prof

Toh, Bersani vuole la patrimoniale

Con l'accattivante titolo «Carta degli intenti del campo dei progressisti e dei democratici» (sic!), oggi Pier Luigi Bersani presenta le nuove tavole della legge del Pd, i dieci punti qualificanti del programma elettorale, e insomma la piattaforma su cui costruire l'alleanza di centrosinistra (ancora non sappiamo se col trattino, cioè con Casini, o senza) che si presenterà alle prossime elezioni politiche. Ieri il Messaggero ha anticipato le linee essenziali del documento - già contestato all'interno del partito perché frutto di un motu proprio del segretario e mai discusso negli organismi dirigenti - e le novità, va detto, sono clamorose.

La spesa pubblica è fuori controllo, il debito schiaccia l'Italia, la recessione galoppa, i consumi crollano, la pressione fiscale reale supera ormai il 60%, la gente non riesce più a fare la spesa perché deve pagare l'Imu, e Bersani che cosa propone? Una nuova, meravigliosa, gigantesca tassa. La parola d'ordine è «redistribuzione delle ricchezze e riequilibrio fiscale», e il metodo non lascia dubbi: bisogna colpire, sostiene Bersani, «le rendite dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari». La Bersani-tax è insomma quella patrimoniale che lo stesso Pd, giustamente, ha finora preferito accantonare, anche perché Monti ha avuto modo di spiegare più volte, in pubblico e in privato, che è praticamente impossibile da applicare correttamente in Italia, che darebbe un gettito insignificante, che farebbe fuggire quei pochi soldi rimasti nel nostro Paese e che, infine, sarebbe un'ultima, definitiva mazzata all'economia reale. Ma Stefano Fassina, ex stagista (a sua insaputa) presso il Fondo monetario internazionale, portaborse per molti anni dell'indimenticabile ministro delle Finanze Visco (nel Pds lo chiamavano il «tassator scortese»), e oggi responsabile delle Politiche economiche del Pd, è convinto che i ricchi debbano piangere sempre e comunque, che l'economia sia un piano quinquennale e il benessere una colpa da punire con l'esproprio.

Nei dieci punti del manifesto bersaniano ci sono cose sensate - per esempio le unioni civili per le coppie omosessuali, nonostante la feroce opposizione di Rosy Bindi, e la cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia - e altre del tutto incomprensibili, come l'idea di costruire una «democrazia saldamente costituzionale», che è una frase palesemente senza alcun significato. Ma il segno dominante - e questo è davvero un peccato, considerate le origini riformiste del Pd - è un conservatorismo cupo, timoroso del presente e terrorizzato del futuro, e persino imbarazzante nel lessico e nella povertà culturale che lo sorregge.

«Non si migliora la produttività comprimendo diritti e salari», si legge per esempio nel documento: ma tutti sanno che quei «diritti» e quei «salari» sono ormai il privilegio di una minoranza di lavoratori, che i giovani ne sono sistematicamente esclusi, e che la difesa testarda dei privilegi dei dipendenti privati e pubblici equivale all'espulsione brutale dal mondo del lavoro di un'intera generazione, al crollo della competitività delle nostre imprese, e dunque alla loro fuga all'estero. L'Italia che vorrebbe Bersani, gravata di tasse e privilegi, è, dal punto di vista economico-sociale, una variante provincialotta e retorica del socialismo reale alla vigilia del suo crollo.

È stupefacente come il decalogo del neo-Pd, che non manca di invocare quella severa legge sul confitto d'interessi che il centrosinistra di governo non si è mai neppure sognato di presentare in Parlamento, non contenga neppure una parola sul cancro che ha ucciso il nostro Paese, e che ora lo trascina in una metastasi dolorosa e senza fine: la spesa pubblica senza controllo, senza efficienza, senza virtù e senza pudore.

La Bersani-tax, che nelle intenzioni degli strateghi della campagna elettorale dovrebbe eccitare l'invidia sociale dei meno abbienti e portare un po' di voti, servirà a finanziare gli ospedali dove i meno abbienti muoiono per una flebo. Il grande carrozzone statale, serbatoio di voti e di corruzione, resta intoccabile; di privatizzazioni e liberalizzazioni non si parla neppure (c'è anzi un confuso paragrafo sui «beni comuni», cioè sulla lottizzazione integrale dei servizi pubblici, perché ad un politico trombato una municipalizzata non si nega mai); la crescita e lo sviluppo sono banditi.

Landini e Diliberto stapperanno lo spumante: il Pd è morto, evviva Democrazia proletaria.

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