Politica

Toh, Ilda scopre le toghe rosse e sbugiarda i suoi ex colleghi

Si è fatta bionda, da rossa incendiaria che era. Ed è diventata più riflessiva. Ilda Boccassini ammette quel che molti suoi colleghi non direbbero mai, nemmeno sotto tortura: «Certi pm hanno usato il loro lavoro per altro». Una tesi che verrebbe controfirmata immediatamente dai militanti berlusconiani, ma che viene declassata ala voce demagogia da buona parte della corporazione togata. E invece no: Ilda la ex rossa, la pm degli interminabili processi a Cesare Previti, la protagonista del caso Ruby e di accesi duelli con il Cavaliere, rompe il tabù. È mancata un'autocritica che la categoria «doveva fare e non ha fatto dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino».
Ecco, dopo aver messo nel mirino la classe dirigente di questo Paese, ora il capo della procura antimafia di Milano si osserva allo specchio e nota che anche la magistratura non è un concentrato di anime pure, ma è attraversata dalle grandi rughe del potere. Calcoli personalistici. Ubriacatura da mass media. Tentazioni politiche. C'è da stropicciarsi gli occhi, ma fino un certo punto. L'intransigente e a tratti quasi apocalittica Boccassini è sempre stata un caso a parte. Polemizzava con Di Pietro e il pool ai tempi di Tangentopoli, ha incenerito di recente Antonio Ingroia, ormai con un piede nell'agone elettorale: «Come può un piccolo magistrato come lui paragonarsi a Giovanni Falcone? Si vergogni».
Insomma, la ruvida pm non è una che possa essere etichettata. Sfugge ad ogni classificazione ed ha un temperamento a tratti anarchico, spesso controcorrente. Dunque coglie l'occasione giusta, - la presentazione del libro L'onere della toga di Lionello Mancini - per fare il contropelo al mondo cui appartiene. Siamo alla Fondazione Corriere della Sera, al suo fianco c'è il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e a porre le domande c'è, oltre a Mancini, il direttore del quotidiano di via Solferino Ferruccio de Bortoli. È proprio De Bortoli a far scoccare la scintilla introducendo la riflessione sul tratto di strada convulso che l'Italia ha percorso da Mani pulite in poi, e dunque toccando il nervo scoperto del «ruolo eccessivo di supplenza» svolto da alcune procure in questi vent'anni. «Non è una patologia della magistratura - risponde lei - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro». La parola supplenza non le piace, le sta stretta, secondo lei il vocabolo è sbagliato e però, per far capire come la pensa, il magistrato torna al periodo drammatico del '92-'93, subito dopo le stragi mafiose: «Io stavo in Sicilia, vivevo in hotel bunkerizzati, con i sacchetti di sabbia e a proteggerci soldati che avevano l'età di mio figlio. Poi venivo qua a Milano, a salutare i colleghi, e vedevo le telecamere, i giornalisti, le manifestazioni a loro favore». Ma sì, i girotondi, anche se allora non si chiamavano così, e le urla sotto le finestre del palazzo di giustizia: «Di Pietro-Davigo-Colombo-andate fino in fondo». E qui scatta a sorpresa la presa di distanza da quel clima di esaltazione: «Ho provato una cosa terribile. Non è l'approvazione della gente che mi deve spingere ad andare avanti, ma fare bene il mio mestiere». Lontano da pulpiti, comizi e proclami. Gira e rigira, la pm più famosa d'Italia si smarca dagli eroi di Mani pulite e dai tanti allievi, da De Magistris a Ingroia, che hanno trasformato il manipulitismo in una specie di rivoluzione permanente. E hanno capitalizzato la popolarità nell'urna. Anzi, uno dei simboli del giustizialismo italiano invita la sua parte all'esercizio più difficile: «C'è stata una conflittualità talmente alta» che i giudici hanno pensato solo a combattere. Ma avrebbero dovuto guardarsi allo specchio: è l'autocritica che la magistratura «doveva fare non ha fatto dopo la morte di Falcone e Borsellino».

Tocca a lei vent'anni dopo riconoscere la necessità di quella requisitoria che fin qui è mancata.

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