Galleggia ancora sulla propria fama. Ma la sua stagione pare ormai avviata al tramonto. Luigi de Magistris ha vissuto almeno due vite: la prima come pm d'assalto, la seconda come leader del movimento Arancione e sindaco di Napoli. Qualcuno pensava che avrebbe emulato Antonio Di Pietro e l'epopea di Mani pulite. Non è stato così: ai titoli di giornale, mirabolanti come fuochi d'artificio, hanno corrisposto inchieste sgarrupate, mai all'altezza delle promesse. E la sua esperienza di primo cittadino prosegue accompagnata dal rumore di fondo di critiche sempre più aspre e definitive. No, Luigi de Magistris, da molti osannato come una delle poche novità nella grande palude degli ultimi anni, è un flop. Anzi, un doppio flop. Prima con la toga. E poi in abiti civili. Le indagini in gran parte si sono perse per strada. E allora la rivoluzione tanto attesa si è trasformata in un lungo e polemico commiato. Fra scandali, dicerie e proclami.
Qualcuno forse immagina ancora in un de Magistris salvifico, ma il personaggio non coincide con la persona in carne e ossa: quella ha deluso le aspettative. E non arriva al basamento del monumento venerato da molti fan e supporter. Ora Gian Marco Chiocci, ex inviato del Giornale oggi direttore del Tempo, e Simone Di Meo tratteggiano per oltre quattrocento pagine la storia di questo colossale fallimento, soffermandosi naturalmente a lungo sulle pagine di cronaca giudiziaria. Il libro, pubblicato da Rubbettino, è critico fin dal titolo: de Magistris il pubblico mistero. Dove il mistero è lo spazio che separa quei titoli così roboanti da una realtà molto più prosaica. Anzi, modesta. Una specie di sconfinato pantano in cui tutta la grandeur del pm-sindaco è affondata e affonda in modo malinconico.
Dunque, de Magistris è un prodotto di quella cultura giacobina e giustizialista che l'Italia ha coltivato dopo l'esplosione di Mani pulite. Un esperimento disastroso e inconcludente che non a caso perde forza negli stessi mesi in cui si è spenta la stella di Antonio Di Pietro e rischia di scomparire anche quella spumeggiante di Antonio Ingroia, passato in breve dal ruolo di pm di mafia sulla frontiera di Cosa nostra a quello di collezionista di gaffe e figure imbarazzanti.
Parevano invincibili i Di Pietro, gli Ingroia e i de Magistris. Ora Di Pietro, che del terzetto era il più roccioso, ha perso il feeling con la pancia del Paese. E de Magistris annaspa e inciampa dentro il recinto di un presente sempre più stretto. Lui si difende sempre allo stesso modo: evocando l'albero diabolico dei poteri forti che come magistrato e come politico ha provato a scuotere, con dubbi risultati. Se le cose non vanno come dovrebbero è perché in agguato ci sono loro: «Grandi vecchi e burattinai, massoneria coperta, magistrati collusi - ecco l'interminabile, elenco dei nemici compilato dagli autori - gli immancabili servizi segreti deviati, consorterie affaristico-criminali e via discorrendo». L'alibi è sempre pronto. E l'alibi è un trattato di dietrologia tutta italiana. La realtà è fatta di errori, svarioni, approssimazione, coriandoli di un'ideologia colorata e leggera leggera.
La realtà ce la a raccontano le tantissime persone finite ingiustamente negli ingranaggi del sistema de Magistris e incontrate dalla coppia Chiocci-Di Meo.
Come Rosa Felicetti, insegnante di Catanzaro, fermata il 21 giugno 2005, ammanettata e portata in un carcere di massima sicurezza a Reggio Calabria sotto il peso di accuse infamanti: dall'associazione per delinquere al traffico di esseri umani. Peccato che dietro queste presunte trame sinistre ci fosse un proposito terra terra: la signora intercettata stava solo cercando una badante.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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