Roma - Sono le 18.50, alba dell'ora terza dell'ufficio di presidenza di Forza Italia. Da Palazzo Grazioli esce una Daniela Santanché in formissima. I cronisti infreddoliti la circondano sperando di avere da lei, la pitonessa che tutti vogliono in secondo piano nell'ultimo selfie scattato dagli azzurri, il sale e il pepe per condire il pezzo. Qualcuno le chiede se ha fatto pace con Berlusconi e lei risponde serafica: «Ma io non ho mai litigato con il presidente». Qualcun altro le chiede se è dispiaciuta di far parte dell'ufficio di presidenza di serie B e lei sorride olimpica: «Non c'è una serie A e una serie B in Forza Italia». C'è uno che insiste e lei infine sbotta: «Se volete a tutti i costi metterci l'uno contro l'altro, farci litigare, mi dispiace ma vi devo deludere. È stata una grande giornata per Forza Italia». E se lo dice lei, che tutti vorrebbero attapirata in queste ore e che certo non è una che la manda a dire, vuol dire che - forse - Forza Italia non è il partito allo sbando che tutti vogliono dipingere.
Che dovesse essere, nelle intenzioni della stampa, il giovedì dei lunghi coltelli si capisce dalla folla di giornalisti e operatori assiepati dietro le transenne più inutili che siano state mai tirate su, in via del Plebiscito. Tutti in cerca di uno schizzo di sangue azzurro nel giorno in cui, a poche centinaia di metri, gira un certo Barack Obama. Un segnale non da poco. Che l'appuntamento sia importante lo dimostra anche la presenza di Mauro Fortini, il presenzialista tv più celebre dopo la caduta in disgrazia di Gabriele Paolini, e del sosia di Berlusconi, omino cristallizzato nella versione del Cav di vent'anni fa, quella con Borsalino scuro, e con il quale il tempo è stato molto meno clemente rispetto alla versione originale.
L'arrivo dei membri dell'organo che si riunisce per la prima volta dopo le nomine di qualche giorno fa avviene alla spicciolata: chi sbuca a piedi mischiandosi alle scolaresche in gita. Chi si nasconde dietro i vetri fumé dell'auto. Gelmini, Carfagna, Verdini, Capezzone, Ravetto, Polverini, Romani, Matteoli. Tutti in silenzio o quasi: le poche parole sono petali di rose infilati nei cannoni dell'informazione. Passa Clemente Mastella, che risponde nel suo politichese di Telese ma stuzzicato su Francesca Pascale, che secondo i bene (non poi tanto) informati sarebbe la mano che si nasconde dietro la sua nomina nel comitato, per un attimo dimentica il galateo: «Ma che str...ata». Passa - in ritardo sull'orario previsto delle 16 - Maurizio Gasparri: «La verità è che Berlusconi aveva ragione su tutto. Anche sulla Libia».
Poi inizia l'attesa. L'assenza di precedenti sulle riunioni di quest'organo autorizza le ipotesi più varie. I «guerrafondai», quelli che credono (sperano?) nella guerra, la mettono giù dura: «Si finirà alle otto e mezzo, alle nove». Ma l'atmosfera è quieta. Ogni tanto fa capolino il deputato Luca D'Alessandro, che racconta di voti all'unanimità, di compattezza, di tanti interventi pacifici. Esce Antonio Martino che prosciugando una sigaretta prende in giro chi vuole tirargli fuori per forza parole di fuoco. Il primo report arriva da Mariastella Gelmini, che racconta della decisione di consentire la candidatura dei big alle prossime europee purché accettino di dimettersi dal Parlamento italiano se eletti. Chiede qualcuno: una vittoria dei big contro la voglia di nuovo di Berlusconi? «No, un segno di compattezza», taglia corto lei. Passa Paolo Romani.
Gli chiedono se è sorpreso del fatto che vent'anni dopo la prima vittoria elettorale Berlusconi è incandidabile e lui rovescia la domanda come un calzino: «Veramente c'è da sorprendersi che dopo vent'anni da quel giorno Berlusconi sia ancora un punto di riferimento imprescindibile della politica italiana». «Le cassandre sono smentite, il nostro movimento è solido e coeso», spiega Deborah Bergamini. Sta a vedere che è proprio così.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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