Tutti gli strappi di Re Giorgio. L'ultimo? Non andare dai pm

Scrive ai giudici per non testimoniare sulla trattativa Stato-mafia e dà l'altolà a Forza Italia in piazza: così Napolitano va fuori rotta

Tutti gli strappi di Re Giorgio. L'ultimo? Non andare dai pm

Verrei, ma anche no. È una lettera, come dire, irrituale quella spedita dal presidente della Repubblica ai giudici di Palermo. Si sa, re Giorgio Napolitano è formalmente il capo dello Stato, ma si comporta come un monarca. Sarà per la debolezza degli altri poteri, sarà perché è considerato l'unico punto di riferimento nel caos generale, sarà perché le regole e le leggi di questo paese sono un guazzabuglio, certo, le parole scritte da re Giorgio sono una novità nella vita repubblicana: il Presidente butta sul piatto tutta la sua autorevolezza e invita la corte d'Assise a riflettere prima di convocarlo. Deluderebbe chi gli pone le domande: «Non ho nulla da riferire». Sbarramento preventivo. Sulla parola. Il capo dello Stato farebbe scena muta perché nulla gli aveva confidato prima di morire il suo consigliere Loris D'Ambrosio, al centro delle attenzioni dei giudici di Palermo. Il discorso sarà pure ineccepibile, ma in questo modo il Quirinale si mette di traverso all'interrogatorio e blocca sul nascere le domande dei magistrati. Tutto si può giustificare, senza voler fare la parte dei costituzionalisti naif, perché è il Quirinale che parla. Ma resta lo sconvolgimento nei rapporti fra i diversi poteri dello Stato e ritorna il braccio di ferro, lo stesso già provato e vinto con la procura al tempo delle intercettazioni.

I lettori ricorderanno: le telefonate del Quirinale con l'ex ministro Nicola Mancino erano state captate, fra polemiche infinite, dai pm di Palermo. Napolitano si era irritato ed era andato davanti alla Corte costituzionale per consolidare le proprie prerogative: allora si disse, e correttamente, che il presidente tutelava non la propria persona ma la carica. Perfetto. Quel che non si capisce è perché lo stesso discorso susciti urla e strepiti se a porre il problema è un tale Silvio Berlusconi che, a differenza di Napolitano, si porta dietro milioni di voti e rappresenta un pezzo dell'Italia di oggi. È una bestemmia sostenere che i problemi del Cavaliere nascono sul piano giudiziario ma possono trovare una composizione anche per via politica?
Certo, il Quirinale gode di prerogative particolari, ma è anche vero che Napolitano continua a strappare, combattendo con tutti i mezzi una battaglia per consolidare la propria posizione. E del resto sarà perfido ma è quasi scontato il retropensiero che ha attraversato la testa degli italiani: il Quirinale ha vinto la battaglia con la procura di Palermo davanti a quella Consulta che per un terzo è di nomina presidenziale. Quasi un cortocircuito.

Non l'unico di questa doppia presidenza a trazione sempre più presidenziale. Sono tanti gli episodi che si prestano a discussioni e interpretazioni contrastanti, sempre sul crinale di un Paese che vive una fase di confusione e di transizione senza fine. Prendiamo due gesti che paiono davvero politici: la concessione della grazia al colonnello americano Joseph Romano, condannato per il sequestro di Abu Omar, e la nomina di un poker di senatori a vita. Bene, Napolitano ha sempre detto che la grazia può essere firmata solo per ragioni umanitarie, insomma secondo i criteri stabiliti dalla Consulta con il proprio sigillo. Peccato che questi criteri non siano stati rispettati per l'ufficiale a stelle e strisce: latitante, e per un reato gravissimo, Romano è stato graziato, come ha spiegato lo stesso Napolitano, per stemperare le tensioni con gli Usa. La ragion di Stato a volte vale e a volte no: a deciderlo è sempre solo lui, l'inquilino del Colle. Che ha promosso sul campo quattro senatori a vita, pescandoli tutti dallo stesso bacino culturale: quello della sinistra italiana. Senza preoccuparsi di dare una bandiera anche ai moderati, disorientati da uno sbilanciamento così plateale.

Napolitano è un gran tessitore di simboli: con un lampo ha creato il senatore a vita Mario Monti, poi l'ha collocato alla guida del governo, infine, passaggio controverso, dopo le elezioni, ormai sconfitto e dimissionario, l'ha lasciato per settimane, fra i dubbi dei costituzionalisti, alla testa dell'esecutivo. Non c'erano alternative, si dirà, nel giro di valzer degli esploratori, ma Monti è stato prorogato per l'ordinaria amministrazione. Che ordinaria non era. Un' altra strambata di re Giorgio I.

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