Ultima spiaggia per la Grecia: rispunta un governo dei prof

Ultima spiaggia per la Grecia: rispunta un governo dei prof

Tutto rinviato a oggi. Con la prospettiva di un nuovo governo tecnico che mantenga a galla la Grecia agonizzante. Ieri sera il presidente della Repubblica Karolos Papoulias, in un estremo tentativo di arrivare alla formazione di un governo di coalizione, ha convocato i leader dei quattro partiti che almeno a parole si dicono intenzionati a impegnarsi per mantenere la Grecia nell’eurozona: i conservatori di Nuova Democrazia, i socialisti del Pasok, il centrosinistra di Sinistra Democratica (in sigla Dimar) e la sinistra radicale di Syriza. Quattro partiti che insieme hanno 220 seggi su 300 e quindi una larga maggioranza in Parlamento.
Peccato che siano fin troppo eterogenei e che bassi calcoli di potere in vista di elezioni che comunque non sarebbero lontane sembrino prevalere sulla doverosa responsabilità verso il Paese. Così, fino all’ultimo momento, è continuato anche ieri il grottesco braccio di ferro tra i leader di Dimar e di Syriza, entrambi preoccupati di garantirsi quello che appare come un ampio portafoglio di voti in libertà. Domenica il primo, Fotis Kouvelis, aveva accusato il secondo, Alexis Tsipras, di «bugie diffamatorie» per aver sostenuto che lui fosse pronto a entrare in un governo di emergenza nazionale con i conservatori e i socialisti; ieri lo ha ugualmente coperto di contumelie, ma stavolta perché si rifiuta di entrare in una maggioranza a quattro e perché farebbe ricorso a «trucchi di comunicazione».
Quest’ultima accusa - si tratta, povera Grecia, di bassa politica - pare riferirsi alle parole usate da Tsipras per nascondere le sue vere intenzioni: quelle di chiamarsi fuori da un esecutivo di responsabilità per atteggiarsi a unico affidabile protettore degli interessi del popolo greco e vincere clamorosamente le prossime elezioni, con l’obiettivo di guidare da posizioni di forza un assai ipotetico governo di sinistra. Il furbo Tsipras, in sostanza, ha boicottato la riunione di ieri sera, ma Papoulias non si è arreso e ha continuato coi leader degli altri tre partiti da lui convocati. Il vertice della disperazione si è concluso con la promessa di rivedersi quest’oggi. Il socialista Venizelos ha detto ai giornalisti che si cercherà di mettere assieme «un governo di tecnocrati».
Base dell’insistenza nel ricercare contro ogni apparente coerenza politica un accordo in extremis sarebbe l’assai fondata paura che - come ha avvertito il premier facente funzioni Lukas Papademos, il «Monti di Atene» - già all’inizio di giugno, in mancanza delle prossime tranche del prestito europeo, cominci a scarseggiare il denaro per far funzionare la macchina pubblica. Con inevitabili e preoccupantissime conseguenze sociali.
E mentre ad Atene la politica mette in scena i suoi mediocri spettacoli, l’Europa trattiene il fiato. Dai Paesi del rigore implacabile arrivano parole gelide. Il severo ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, in predicato di prendere anche la guida dell’Eurogruppo, prevede che «il popolo greco sarà costretto a soffrire le conseguenze di decenni di negligenza» e afferma la priorità della «credibilità economica» sulla «generosità verso la Grecia». Gli fa eco la collega ministro austriaco Maria Fekter, secondo la quale Atene «non può uscire semplicemente dall’euro perché i trattati non lo prevedono, ma dovrebbe prima lasciare l’Ue». A quel punto, sostiene, potrebbe rifare la domanda di adesione che verrebbe valutata «con ben maggiore attenzione rispetto al passato». Manca in queste dichiarazioni, come osserva «stupefatto» il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto, qualsiasi tono autocritico, che sarebbe quantomeno opportuno.


Meno diretta la Cancelliera tedesca Angela Merkel, secondo cui la Grecia «farebbe bene a rimanere nell’eurozona» e i leader europei «devono fare tutto il possibile per aiutare l’economia ellenica a tornare a crescere». Mentre ad Atene si cercava un estremo accordo politico, la Merkel ha detto di «non aspettarsi» che la Grecia si rimangi gli impegni presi con l’Ue»: solo in quel caso infatti «la solidarietà europea verrebbe meno».

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