Veltroni l'ha detto, il Professore lo fa: inviato speciale per risolvere la crisi in Mali

Roma È nel destino di Romano Prodi riuscire in ciò che Walter Veltroni promette soltanto. Accadde con il presunto salvataggio della Patria, ovvero le sfide elettorali contro Silvio Berlusconi, vinte dal professore bolognese per ben due volte, laddove il tenero Uòlter nel 2008 rimediò una manita in piena faccia. Accade ora con uno dei pezzi più gettonati del juke-box veltroniano, il trasloco in Africa che Veltroni poi non fece. Prodi invece ci andrà davvero, in qualità di inviato speciale dell'Onu nel Sahel. E senza nemmeno averlo annunciato in tv.
L'incarico affidato all'ex premier dal segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki Moon non è agevole: cercare di dare un senso alle trattative per la pace nel Mali devastato dalla guerra civile e spaccato in due, con il Nord che si è di fatto staccato dall'inerme governo centrale di Bamako ed è nelle mani di formazioni islamiche che, si teme, potrebbero «esportare» la jihad in tutta la regione subsahariana. Un'impresa difficilissima, al punto che qualcuno nel palazzo di vetro di New York ha pensato che potesse avere qualche speranza di esito solo un uomo abituato ai miracoli: come far vincere le elezioni italiane (sia pure ai calci di rigore) a una formazione rappattumata come l'Ulivo del 2006. E se la missione fallirà? Potremo sempre cavarcela con una battuta: di Mali in peggio.
Il fatto è che la fuga in terre lontane e possibilmente bisognose di aiuto è un cliché letterario e cinematografico a cui il politico di sinistra talora indulge. Il più celebre safari immaginato è quello già ricordato di Veltroni, che annunciò il suo futuro africano come suggestione puramente elettorale nel salotto televisivo di Fabio Fazio nel 2006, quando si apprestava a essere rieletto sindaco di Roma. Veltroni, forse convinto che un'epidemia del morbo di Alzheimer stesse per abbattersi sull'Italia o semplicemente perché strasicuro di avere davanti altri cinque anni di Campidoglio, così argomentò la nobile scelta: «Alla fine di questo secondo quinquennio io avrò concluso la mia esperienza politica. Non bisogna fare politica a vita, bisogna continuare a fare le cose nelle quali si crede facendo altro». E a chi dubitò rispose spocchioso: «Ne parleremo tra cinque anni, vedremo tra cinque anni se sarà vero o no». Com'è andata lo sappiamo tutti e il mancato rispetto del suo impegno è stato rinfacciato talmente tante volte a Veltroni da indurci a non infierire su chi, per la capacità di incidere sul quadro politico attuale, è come se in Burkina Faso ci fosse andato davvero.
Un altro diessino con la vocazione del missionario è Piero Fassino, che nel novembre del 2007 venne nominato inviato dell'Ue in Myanmar (l'ex Birmania) da Javier Solana, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune di Bruxelles, per seguire il tormentato percorso di questo angolo del Sud-Est asiatico verso la democrazia. Ruolo che il filiforme politico piemontese ha rivestito fino all'agosto 2011 senza che peraltro i sismografi politici birmani registrassero alcun sussulto, per quanto minimo. Per Fassino se non altro la missione birmana non si è rivelata una sorta di canto del cigno politico, visto che è tornato con successo all'agone politico nazionale vincendo le elezioni a sindaco di Torino nella primavera del 2011. I birmani ringraziano, i torinesi non è dato sapere.


E poi c'è uno che politico non è, ma che dà una valenza certamente politica al suo lavoro, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che è stato collocato fuori ruolo per poter rivestire l'incarico di capo dell'Unità di investigazione della commissione internazionale contro le impunità in Guatemala. Altro continente, altra emergenza, altra fuga dalla realtà, anche se il diretto interessato garantisce: «È un'avanzata».

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