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La vera posta in palio è la rottamazione dell'anima rossa del Pd

La vittoria di Renzi potrebbe portare all'estinzione dell'identità del Pci con 25 anni di ritardo. Impresa non riuscita a Prodi, Rutelli e Veltroni

Il segretario del Partito democratico, Pierluigi Bersani
Il segretario del Partito democratico, Pierluigi Bersani

C'è una posta in gioco epocale e drammatica, nel ballottaggio di domenica prossima tra Bersani e Renzi. Se per caso il sindaco di Firenze vincesse, il Pci dovrebbe alla fine, e con un quarto di secolo di ritardo, chiudere bottega.
Perché quando Bersani parla della «difesa della ditta», quando D'Alema accusa Renzi di voler «far finire il centrosinistra», quando la Bindi ringhia che è lo «strumento per scardinare il Pd», usano nomi diversi ma intendono la stessa cosa: il Pci, e la sua classe dirigente, sopravvissuti finora a ogni cambio di nome. E la sua eterna egemonia sullo schieramento progressista italiano (che infatti nessuno, con tutta la buona volontà, potrebbe chiamare liberal, come si usa per la sinistra anglosassone).
Hanno provato in diversi a scalpellarla, nei decenni: un vecchio democristiano di potere come Romano Prodi, un giovane ex radicale come Francesco Rutelli, persino un ex comunista anomalo come Walter Veltroni. Ci provò per un attimo anche Dario Franceschini (non per nulla anche in quel caso D'Alema annunciò: «Se vince lui il partito va da un'altra parte»). Ci ha provato per anni, con certosina pazienza, Arturo Parisi, che infatti è il vero inventore di quelle primarie che, all'epoca, neanche Prodi voleva. Sono stati tutti eliminati, in vario modo, dai post-Pci, con la fattiva collaborazione di quei «volenterosi carnefici» post-Dc che nel Pd hanno più o meno accettato (con laute compensazioni) di ricoprire il ruolo del Partito dei contadini polacchi ai tempi del Muro.
Ora ci prova lui, e c'è pure il rischio che ci riesca. Per questo durante la settimana che si apre accadrà di tutto, per questo nelle scorse settimane il martellamento anti Renzi e il tentativo di demolirne la personalità (è di destra, è figlio di Berlusconi, è un corpo estraneo, è la longa manus dei poteri forti, dei finanzieri delle Cayman, dei pirati della Malesia, della Banda Bassotti e quant'altro) è stato così incessante. Doveva penetrare a fondo nelle coscienze dei figli del partito, che era in corso un tentativo alieno di impossessarsi della casa dei padri. Che in gioco c'è qualcosa di più di un cambio di classe dirigente: in gioco c'è un Dna, un patrimonio genetico (e non solo), una appartenenza ontologica. E per gli ex Ds la sorpresa più allarmante è stato scoprire che aveva fatto breccia proprio nelle Regioni rosse, lasciando loro l'egemonia morale sul solo voto controllato dai capi-bastone del Sud.
Certo, un'ascesa del giovane Renzi sarebbe un guaio per tutto un ceto politico che rischia di apparire di colpo obsoleto, da Casini a Montezemolo al centrodestra, e gli endorsement berlusconiani al sindaco di Firenze non hanno certo lo scopo di giovargli. Ma il paradosso più colossale è quello del Pd: per la prima volta si trova in mano un jolly che può farlo vincere; che riesce a contenere la spinta dell'antipolitica (non a caso è diventato il Nemico pubblico numero 1 per Grillo); un candidato premier che, secondo i sondaggi, allargherebbe di parecchi punti il bacino elettorale e sfonderebbe in quell'elettorato centrista e post-Pdl che mai la sinistra è riuscita a intercettare, emancipando il Pd dalle obbligatorie alleanze ingovernabili con Sel, Idv, Udc e quant'altro. E che fanno, lo acclamano, lo incoronano, ci si accordano? No, cercano di ucciderlo.

In nessun Paese europeo sarebbe comprensibile, in Usa non ci sono neppure le parole per spiegarlo. In Italia, la patria del più grande e longevo partito comunista d'occidente, che per la prima volta rischia di chiudere davvero, è invece normale.

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