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«Vi racconto i gastro guru Cracco, Farinetti e Petrini»

Per comprendere come mai il critico enogastronomico Paolo Massobrio, detto Maisobrio, erede del compianto Luigi Veronelli, detto Gino, abbia consacrato la sua vita al culto del palato, occorre partire dall'anamnesi familiare. Anno 1932: il nonno paterno, Francesco, muore d'infarto nella sua vigna di Masio (Alessandria). Anno 1952: Giuseppe, padre di Paolo, dismessa la divisa di carabiniere già addetto alla sicurezza personale di re Vittorio Emanuele III, dapprima s'ingegna come impiegato di banca alla Comit di Milano, poi molla assegni e bonifici e torna nel Monferrato per dedicarsi a una cantina. Anno 1973: all'età di 12 anni il futuro degustatore beve per la prima volta la Barbera imbottigliata da tal Terzano, contadino di San Marzano Oliveto, e decide che diventerà il vino della sua vita. Anno 1974: ogni 15 giorni l'adolescente insegue festante per strada, fino alla pesa pubblica, il bue grasso destinato alla macelleria del nonno di Urbano Cairo e lì, in compagnia dell'amico destinato a diventare editore, proprietario di La7, socio del Corriere della Sera e presidente del Torino, assiste impassibile al rito del chiodo sparato nella fronte dell'animale con la pistola eutanasica; e, anziché provare compassione per il pio bove che s'affloscia sulle proprie zampe senza un lamento, già se lo immagina nel piatto, sotto forma di «carne battuta al coltello con un brivido d'aglio».
Mi pare d'avervi detto tutto. Ah, no: poi c'è la storia del nettare liturgico che il chierichetto Maisobrio ciucciava di nascosto dalle ampolline in sacrestia, vizietto che da adulto lo ha fatto diventare - anno 1987 - segretario del seminario internazionale di studi sul vino da messa. «Lei ci scherza, ma, a parte la passione di Noè, è così che nacque la viticoltura: grazie alla Chiesa. Chi crede che abbia messo a dimora le barbatelle in California? I gesuiti. Era l'unico modo per assicurare alle celebrazioni eucaristiche un prodotto “naturale de genimine vitis et non corruptum”, come prescrive il codice 924 del diritto canonico. Al primo simposio chiesi: il vino in barrique è da considerarsi corrotto? Nessun teologo seppe rispondere».
Così inquadrato il personaggio, vanno ora chiarite le benemerenze di Paolo Massobrio, dal 2001 enologo di fiducia della Stampa, compilatore in passato della Guida dell'Espresso e collaboratore del settimanale, nonché del Sabato, di Epoca e di Gente Viaggi. Anno 1992: fonda il Club di Papillon, movimento di consumatori gastrogaudenti che oggi conta 6.500 soci e 50 sedi. Anno 1994: comincia a pubblicare Il Golosario, la «guida alle mille e più cose buone d'Italia» che ogni 12 mesi recensisce i prodotti alimentari tipici, le cantine, le boutique del gusto e i 555 migliori ristoranti, oggi affiancata da sei applicazioni per Iphone e Android. Anno 2000: inventa Golosaria, che dopo la prima edizione nella Palazzina di caccia di Stupinigi, ora si tiene annualmente a Milano per la gioia dei 45.000 ghiottoni e sbevazzatori che affollano la rassegna in appena tre giorni (da ieri e fino al 2 giugno è in corso un'appendice a Riccione). Anno 2014: viene prescelto come giornalista che dovrà raccontare sul magazine dell'Expo 2015 le prelibatezze agroalimentari esposte nel Padiglione Italia.
La propensione di Maisobrio («continui pure a chiamarmi così, non mi offendo, anzi mi diverto») per il bien vivre trova modo di esplicarsi anche nelle circostanze più luttuose. Infatti è uso indossare il papillon d'ordinanza che dà il nome al suo club persino ai funerali.
Ma non si vergogna ad agghindarsi come il compianto Vittorio Orefice?
«Il farfallino è molto comodo. Fatto il nodo la prima volta, non ci pensi più».
La denominazione Papillon ha a che vedere con le papille gustative?
«No, solo con la farfalla che vola di fiore in fiore. Se c'è una cosa in cui i produttori di eccellenze sono ancora scarsi, è comunicare. Cerco di aiutarli».
Come mai il suo amico d'infanzia Cairo non la chiama a La7?
«Non credo di essere adatto per la televisione. E non voglio diventare un clone di Ave Ninchi».
Ma a questi chef che stanno tutto il giorno in Tv, quando avanzerà il tempo per cucinare?
(Ride). «Eh, eh! Bella domanda. Alcuni ormai sono maestri e quindi lasciano fare agli allievi. Però, sarà un caso, le ultime nove volte che sono capitato di sorpresa da Gianfranco Vissani, l'ho sempre trovato ai fornelli, sia a Baschi e sia nel ristorante che ha aperto l'estate scorsa a Capri. Chapeau».
Che cosa pensa di Masterchef?
«I miei figli e i loro amici lo guardano, e questo è positivo. Io non sopporto quel Joe Bastianich che scaglia per terra i piatti malriusciti. Annunciare nei titoli di coda che le vivande avanzate vanno in beneficenza mi sembra un controsenso. Il cibo è un dono di Dio: non si spreca».
Com'è riuscito a trasformare la gola in un mestiere?
«Nel 1988 cominciai a scrivere per la pagina di agricoltura sul Giornale. Dopodiché lavorai per 10 anni alla Coldiretti, facendo il praticantato nella testata della confederazione, Il Coltivatore. La passione per il giornalismo l'ho sempre avuta. In quinta elementare stracciai i miei compagni di classe e stupii il maestro Dominioni assegnandomi 127 temi volontari. Passavo i pomeriggi a casa a scrivere. Alle scuole superiori ero già caporedattore del bollettino».
Quale bollettino?
«Il Bollettino, giornalino scolastico. Ricordo ancora un'inchiesta sulle scritte nei cessi. Il direttore era don Edoardo Canetta, docente di religione all'Itis Ettore Molinari di Milano, frequentato da Sergio Ramelli, lo studente del Fronte della gioventù ucciso nel 1975 dagli estremisti di sinistra. Il nostro foglio ciclostilato era considerato reazionario. Infatti gli autonomi fecero saltare in aria la Fiat 127 di don Canetta».
Ma perché è diventato enogastronomo anziché giornalista politico?
«Il mio sogno era questo, tant'è vero che m'iscrissi a scienze politiche alla Cattolica. Solo che fui deviato su una tesi di statistica economica, 700 pagine frutto di tre indagini campionarie, talmente completa che il preside Gianfranco Miglio volle venire a discuterla con me, affiancando il relatore Alberto Quadrio Curzio. L'anno dopo scoppiò la tragedia dei morti per le sofisticazioni con il metanolo e quella tesi mi accreditò come esperto presso i giornali. Oltre che ideologo della Lega, Miglio era anche un produttore di vino nella sua tenuta di Domaso, sul lago di Como. Qualche tempo dopo ne bevemmo due bottiglie insieme, una di Domaso bianco e una di rosso, sgranocchiando le olive in salamoia raccolte nel suo giardino mentre lo intervistavo per Vigna & Vini. Fu uno dei quattro grandi incontri della mia vita».
Il secondo quale fu?
«Nel paese di fianco al mio, Rocchetta Tanaro, Giacomo Bologna nel 1982 decise che la Barbera sarebbe diventato uno dei più grandi vini del mondo. E fece nascere il Bricco dell'Uccellone. Quella sera ero nella sua cantina con Luigi Veronelli e Bruno Lauzi, il cantautore, a sua volta produttore di un'altra Barbera, La Celesta. Il vino di Bologna prese il nome da una vecchia orrenda che abitava su quella collina. Noi la chiamavamo Auslon, uccellone, perché era sempre vestita di nero, sembrava proprio l'uccello del malaugurio».
Il terzo incontro?
«Con don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione. Una sera del 1985 si autoinvitò a casa mia all'ultimo istante. Chiamai due amiche per preparare in fretta e furia qualcosa da mangiare, asparagi e non ricordo che altro. Alla fine della cena mi chiese un'insalata: aglio a fettine condito con un filo d'olio. “Mantiene sani”, spiegò».
L'alito non fa il monaco.
«All'inizio, dopo aver sorseggiato l'aperitivo, esclamò stupito: “Ma questo non è un vermut qualsiasi!”. Infatti era Barolo chinato. Capii così che quel sant'uomo s'intendeva anche di vino, oltre che di anime».
Il quarto incontro?
«Con Riccardo Riccardi, conte di Santa Maria di Mongrando. Aveva lavorato una vita per la Martini & Rossi, imponendo nel mondo il nome del cocktail preferito da James Bond».
Ma scrivere di vino dà di che vivere?
«Ci ho mantenuto tre figli, che oggi hanno 24, 22 e 18 anni, due laureati, uno anche sommelier. Però gli inizi furono duri. Per pagarmi gli studi, dal 1980 al 1985 ho fatto l'avventizio a Publitalia. Eravamo in sei a svolgere sondaggi fra i telespettatori: 25 telefonate a testa ogni mezz'ora, in tutto 300 l'ora. Quando andava in onda Dallas, dopo 30 minuti ci chiamava Silvio Berlusconi per sapere gli ascolti. Uno dei sei era Urbano Cairo, che poi fu assunto dal Cavaliere come assistente personale. Siccome non esistevano i computer, uno di noi, a turno, faceva i conteggi a mano. Ricordo che una volta gli risposi io. Mi chiese: “Ha visto i giornali di oggi? Il premier Bettino Craxi ha preso le nostre difese”. Io non avevo letto una minchia. “Vabbè, tanto ci pensa il Berlusca a mantenervi un lavoro”, concluse magnanimo».
I primi soldi come enogastronomo?
«Veri? Con L'Espresso. Sul settimanale Edoardo Raspelli si occupava di ristoranti e io di prodotti tipici. All'improvviso Veronelli smise di scrivere di vino perché non voleva più firmare insieme a noi. Ci odiava. Mi chiamò il direttore generale Milvia Fiorani: “Se la sente di sostituirlo?”. Io balbettavo. “Ma, ma, ma, un cazzo!”, tagliò corto. “Ha 15 minuti di tempo per mandare la rubrica da mettere in pagina”. La dedicai a Gino e all'Ai Suma, il super Bricco di Bologna, per il quale avevamo raccolto le uve di Barbera insieme il 19 ottobre 1991. Scrissi che sostituire Veronelli era impossibile. Per tutta risposta lui dichiarò al Messaggero di non sapere chi fossi, di non avermi mai incontrato in vita sua».
Poco simpatico.
«Allora pubblicai sul mio sito un elenco di 40 cose che avevamo fatto assieme, incluse le foto di una partita di calcio. Ci riabbracciammo soltanto nel 2003».
Ce l'aveva tanto con lei e Raspelli perché siete sempre stati vicini a Cl?
«Penso di sì. Veronelli si professava anarchico e ateo. Una sera, a cena con il conte Riccardi e le nostre mogli, prese a insultarmi: “Tu credi alle fanfaluche. La fede è illusione”. E avanti così. Io tacqui fino alla fine. Voleva addirittura andarsene perché non raccoglievo le sue provocazioni. Al momento di sorseggiare un bicchiere di Monfortino, gli dissi solo: Gino, secondo me la brutta esperienza che stai vivendo - ormai era quasi cieco - ti avvicina a Dio. Lui sorrise. E si acquietò. Mi rese un grande onore: aveva dentro un grido e lo volle lanciare proprio a me».
Che cosa pensa di Carlo Cracco?
«Quando nel 1996 non era ancora nessuno, e lavorava al ristorante Le Clivie di Piobesi d'Alba, lo lasciai senza voto sia sulla Guida dell'Espresso che su Papillon perché mi servì una sfoglia bruciacchiata che sapeva di fritto».
E di Oscar Farinetti, patron di Eataly?
«All'inizio m'invitava a cena almeno una volta al mese. Da quando l'ho criticato sui sette punti per l'Italia che annunciò durante una traversata in barca con Giovanni Soldini, non mi ha più cercato. Io penso che se un amico piscia fuori dal vaso, per il suo bene glielo devi dire. Peccato: a casa sua si beveva bene».
E di Carlo Petrini, padre di Slow food?
«Lo conosco dai tempi in cui collaboravo a Barolo & Co. Lui ha studiato sociologia a Trento, dove nacquero le Br; io alla Cattolica. Qualcosa vorrà pur dire».
Però Papa Francesco ha telefonato a Petrini, mica a lei.
«È come se avesse telefonato a me. Ho subito chiamato Carlin per complimentarmi. Era emozionato. Come lo ero io quando Benedetto XVI mi scrisse un biglietto di suo pugno per ringraziarmi d'aver pubblicato Adesso, la prima agenda per vivere 365 giorni con gusto in famiglia».
Il cardine dell'arte culinaria qual è?
«L'uovo».
Mi rispose così Giovanni Nuvoletti, presidente dell'Accademia italiana della cucina.
«Domine non sum dignus».
Il miglior cuoco?
«Vissani. E poi Francesco Bottura dell'Osteria Francescana di Modena e Davide Scabin del Combal Zero di Rivoli».
Il suo piatto del cuore?
«La cassoeula. Però solo quella di Gianni Borrelli dell'Altra Isola di Milano, che fu soprannominato Il Monsignore da Gianni Brera per i suoi modi curiali».
Un vino sopravvalutato?
«Il Brunello di Montalcino. Non sempre mantiene quello che promette».


Ma lei quanto è disposto a spendere per una bottiglia al ristorante?
«Non più di 30 euro. Oltre, vado in cerca di alternative. E sono sicuro di trovarle».
(704. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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