Il vizio di consegnarsi allo straniero

È una tentazione che viene da lontano: quando non si riescono a regolare i conti in casa si chiama in soccorso lo straniero. Monti e Bersani in fondo non sono mica a primi a sperare nello straniero

Il vizio di consegnarsi allo straniero

È una tentazione che viene da lontano, come un istinto antico, quando non si riescono a regolare i conti in casa si chiama in soccorso lo straniero. E pazienza se poi il «liberatore» non si accontenta di fare da paciere, ma si prende un pezzo d'Italia come compenso per la scocciatura. Qualcuno in fondo deve pur pagare la chiamata. Monti e Bersani per liquidare una volta per tutte Berlusconi sono andati fino a Berlino e lì la signora Merkel li ha convinti che c'è un solo modo per non correre rischi: allearsi contro l'usurpatore. Il resto non conta. Vendola può far finta di piangere, gli italiani possono non capire, non è importante. Se poi dovesse comunque andare male, se quello resta lì testardo e non cade, non molla, ci penserà la Germania, o l'Europa, o l'America, o l'anonima mercati a trovare il modo per una spinta finale. Il voto? serve solo a dare un'apparenza di democrazia. Certe decisioni vanno prese in alto, molto più in alto.
Monti e Bersani in fondo non sono mica a primi a sperare nello straniero. Pensate a quella vecchia storia di guelfi e ghibellini. Non è solo una disfida da tifosi tra chi sta con il Papa e chi con l'imperatore. È potere. È affari. È il controllo delle città. Sono famiglie contro e una delle due è di troppo. Il risultato può essere solo binario: o tutto o niente, uno o zero. È una guerra civile che contagia tutte le città del Settentrione, da Milano a Siena, con Roma papale che naturalmente guarda tutto con gran interesse. Come si risolve? Ci pensa Carlo D'Angiò, re di Napoli e capostipite della dinastia cadetta del trono francese.
Fatti fuori i nemici non è che i guelfi se ne stanno buoni e tranquilli. Siccome il potere è il potere cominciano a litigare tra di loro. È quello che segna a Firenze il destino di Dante, fatto di esilio, di quanto sa di sale lo pane altrui. È la storia dei bianchi e dei neri. Tutti per il Papa, per carità di Dio, ma i bianchi sono un'oligarchia nobile, i neri sono mercanti parecchio arricchiti. Sono Cerchi e Donati. La questione si chiude con i neri che chiamano Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello di Francia. Lo chiameranno Paciaro di Toscana. La pace finisce con la cacciata dei bianchi, Alighieri compreso.
Un bel po' di tempo prima, nel 1176, Alberto da Giussano, leghista a sua insaputa, si ritrovò a Legnano al comando della compagnia della morte a combattere contro l'armata imperiale. Uno scontro da Guerre Stellari, una masnada di cavaliere beffa la potenza quasi invincibile del potere assoluto. Ma chi lo chiama Barbarossa in Italia? Gli italiani, o meglio, un gruppetto di Comuni tra cui Lodi, Pavia e Como per ridimensionare le ambizioni di Milano.
Storia che si ripete nel 1494 con Carlo VIII, che si presenta con ventimila uomini armati e un corpo d'artiglieria efficiente e innovativo. Ancora quelli di Como o di Lodi? No, stavolta è Milano. L'idea è di Ludovico Sforza, detto il Moro. Chiama il francese per mettere a posto il re Aragonese Ferrante I, che sostiene suo cognato Gian Galeazzo Sforza. Insomma, roba di «poltrone». Sarà sempre così.

Sarà così nel Risorgimento, con lo Stato Pontificio che piange. Sarà così quando Peppone e Don Camillo si trovano uno sponsor potente a Mosca o a Washington. La morale è sempre la stessa: pur di cacciare il vicino di casa siamo pronti a svendere tutto il condominio.

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