Volevo guarire il mondo, ma con la penna

S apete, ogni scrittore ha il proprio argomento, un tema. E vi ritorna sempre, qualsiasi cosa scriva, perfino quando sembra che scriva di altro. Il tema dell'amore, ad esempio, o il tema del sesso, o il tema dell'avventura, o il tema dell'ingiustizia... i temi cui io torno sempre sono: la Morte, che sono incapace di accettare, la Libertà, della quale non so fare a meno, e il Potere, che mi fa tanto arrabbiare (come sanno tutti). Ho battuto così tanto su questi temi nella mia vita, che talvolta mi domando se, in realtà, la scelta di medicina non nascondesse una motivazione ben più complessa. Cioè la sintesi di questi tre temi. Altrimenti detto, una (...)

(...) motivazione politica. Vedete, sono cresciuta durante la Seconda guerra mondiale e la bambina di cui vi ho raccontato era il risultato di quella guerra voluta da un potere che aveva ucciso la libertà: in un certo senso devo aver scelto medicina anche per ribellarmi a tutta la morte che avevo visto. Era un modo per preservare la vita nonostante i signori della guerra, i tiranni, gli assassini che maltrattano e sacrificano altri esseri umani sugli altari della loro follia, della loro malvagità. Fu infatti allora che incominciai a pensare che i medici più di chiunque altro dovrebbero essere coinvolti in politica. Medici e donne incinte. Oh, non è un paradosso Fallaci. È logica, buon senso. Vi dico: in quei raduni contro le bombe nucleari e le guerre dovrebbero esservi più dottori e donne incinte di chiunque altro.
Non divenni mai medico, ahimè. Non terminai mai gli studi di medicina. Di fatto finii per aderire all'opinione di mio zio secondo cui le università trasformano in idioti anche i più intelligenti. Non mi laureai. Le uniche lauree che ho sono quelle honoris causa. Ma la vera ragione per cui lasciai medicina è che nel mio Paese, all'epoca, le università non erano gratuite come oggi. Uno doveva pagarsi da sé il proprio cammino verso la laurea (motivo per cui solo i ricchi o i più ricchi accedevano a certe professioni). La facoltà di medicina era la più costosa e la mia famiglia era tutto fuorché ricca. Così, per mantenermi all'università, incominciai a lavorare come reporter per un giornale: dalle 8,30 del mattino alle 5,30 del pomeriggio in università e dalle 5,30 del pomeriggio fino alle 3 di notte circa al giornale. Rincasavo sul furgoncino della prima edizione e quando mi svegliavo alle 7 mi sarei messa a piangere per quanto avevo sonno. In diciotto mesi arrivai a pesare trentaquattro chili. Dovetti prendere una decisione e abbandonare quegli illimitati orizzonti di conoscenza umana. Rimasi al giornale e divenni giornalista, poi scrittore. Siamo onesti: per quanto continui a essere così invidiosa di voi, gelosa perfino, non ho nulla da rimpiangere. Anche il mio lavoro è meraviglioso, ammesso che – come il vostro – venga affrontato non come un mestiere, ma come una missione. E poi chi lo può dire? Avrei anche potuto essere un pessimo medico, e abbiamo davvero già troppi cattivi medici per poterci permettere il lusso di un cattivo medico di nome Oriana Fallaci. Come scrittore sono brava, invece, e mai modesta a questo riguardo. Sono brava perché... Perché sono nata per essere uno scrittore e sarei uno scrittore anche se non avessi avuto le mani per scrivere. Una volta un giornalista che mi intervistava mi chiese: «Cosa le piacerebbe vedere scritto sulla sua lapide, sotto il suo nome?». Risposi senza esitare: «Forse non mi importerebbe poi tanto del mio nome. Ma mi piacerebbe vedere queste parole: qui giace uno scrittore».
Oriana Fallaci
©2013 RCS Libri SpA, Milano

segue a pagina 23

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di Oriana Fallaci

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