«Invasi dagli altri, non siamo padroni a casa nostra»

da Venezia

«Grati alla guerra, vera generatrice di racconti». «Una generazione vittima della crisi? Ma per favore: avere vent’anni è bellissimo e chi se frega se i tempi sono difficili. La cultura del piagnisteo non fa bene a nessuno: un ventenne sano e con un po’ di fortuna ha il mondo in mano». Che sia una voce fuori dal coro è indubbio. Andrea Molesini, vincitore del SuperCampiello 2011, è nato e vive a Venezia, scrive in barca a vela, insegna Letterature comparate a Padova, è un premio Andersen alla carriera come autore di fiabe e romanzi per ragazzi, è il traduttore di Walcott, Pound, Hughes e ha esordito nel 2010 proprio con il romanzo che l’altra sera lo ha portato sul podio: Non tutti i bastardi sono di Vienna (Sellerio). Autunno 1917, Caporetto: in riva al Piave viene requisita per crearvi un comando nemico, e parte la storia di una famiglia prigioniera in casa propria, fatta di eros ed eroismo, riscosse e avvilimenti, vincitori che diventano vinti.
Per presentare il suo libro lei scrive: «Il ruolo di ospite in casa propria è quello di ciascuno di noi, ora, qui». Criptoleghismo?
«Per carità, io scrivo in italiano, mica in veneziano. E sono pubblicato da un editore siciliano. Mai rifugiarsi nel piccolo, mettersi confini. Detto ciò, la sensazione che si ha oggi è quella di vivere la vita di un altro. Non più in sella al proprio destino. L’Europa non è più la testa del mondo, ma un’appendice di scarso valore. Siamo padroni di casa impotenti: invitati a cena da chi si è impadronito del rifugio, della famiglia, della tradizione, di ciò che conosci. L’invasione è anche culturale. Essere invasi è una costante del nostro mondo».
Lei si è detto «grato alla guerra»...
«La guerra è tragedia e autodistruzione ma anche “argomento di canto”, secondo la tradizione classica. Iliade, Odissea, Guerra e pace ma anche l’Orso Yoghi: se non ci fosse il ranger che gli spara perché ruba i cestini della merenda che cartone sarebbe? Il conflitto è alla base della narrazione. Non è una novità, ma ormai siamo tutti oberati dalla voglia di compiacere».
Che Lei non ha?
«Sono uno spirito polemico. Mi sento un outsider e lo resterò sempre. Per carattere».
Anche l’ambientazione - la prima guerra mondiale - è outsider.
«Non è mai stata raccontata la resistenza italiana di quel periodo, mentre sulla seconda guerra mondiale c’è di tutto, molta retorica e un sacco di balle. È un libro in cui credo ci sia passione, energia vitale».
Doti rare per i libri italiani.
«Leggo pochissima letteratura italiana contemporanea. Non per snobismo esterofilo, ma perché sono stufo di guardarmi l’ombelico. Amo la visione epica della vita: eroismo e ironia, come nel mio romanzo.

La letteratura deve rappresentare la bellezza, l’intensità dell’esistente, anche di violenza».
E invece i narratori italiani?
«Come gli italiani stessi, sono malati di seriosità. Troppo conformisti, provinciali, montano in cattedra».

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