Inzaghi superstar cerca l’ultimo gol: il Pallone d’oro

Ha segnato le reti che contano nei match decisivi. «È il momento più bello della mia carriera». Spera nel trofeo dei campioni. Gli dicono: sei il centravanti più forte del mondo E lui s’arrabbia: «Come se prima...»

Non gli è mai piaciuto lasciare l’opera a metà: è l’istinto dell’artista puro, dicono. È successo col Milan, in Champions league, campione dei campioni dopo aver rischiato la vita, si è ripetuto con la nazionale di Donadoni capace di risalire la china al culmine di un lungo inseguimento durato otto mesi tondi tondi. Perciò il suo slogan preferito («Il bello deve ancora venire») è diventato una specie di urlo di guerra di Inzaghi, 34 anni spesi per dimostrare che se uno ci crede, ci crede davvero, può diventare anche re. E non conta se re del gol o dell’acciaio. Con questo urlo SuperPippo cannoniere si è impadronito della scena calcistica internazionale da qualche settimana e non pare disposto a lasciarla. Persino le vacanze, ormai dietro l’angolo, gli devono sembrare una specie di attentato all’estasi vissuta dalla notte di Atene in avanti. Da sempre gli è piaciuto assaporare il gusto dolcissimo della gloria, i titoli dei giornali divorati di primo mattino e le cassette tv custodite gelosamente in casa specie poi se accarezzano l’idea di un premio speciale e superlativo, il Pallone d’oro.
Per concludere l’opera cominciata in agosto con la Stella Rossa (preliminare di coppa Campioni superato grazie ai suoi due sigilli) Inzaghi è passato da Atene dopo aver stregato Bayern e Manchester e si è servito del suo numero preferito, sponda beffarda sulla punizione di Pirlo, contro il Liverpool, per spalancare le porte della real casa rossonera alla settima coppa dei Campioni. Per completare l’opera cominciata a Napoli contro la Lituania, settembre 2006, si è arrampicato fino alle Far Oer per seminare altre due perle e far scattare l’Italia al secondo posto del girone B.
«Meglio di così...» continua a ripetere Filippo Inzaghi con amici e sostenitori, con il ct Donadoni e con Ancelotti sentito al telefono al ritorno da Torshavn. «È il momento più bello della mia carriera» sentenzia convinto e invece sotto sotto è come se fosse scortato da uno scomodo pensiero che ha preso a torturarlo. Già, riscoperto a 34 anni, dal popolo del Milan che non l’ha mai dimenticato provocando qualche mal di pancia a Gilardino e recuperato al volo dalla nazionale nel momento del bisogno, presentato da stampa e critici a corto di memoria come il centravanti più forte del mondo. Adesso, solo adesso, ma si può? «Come se prima...» è l’intima amara riflessione di Inzaghi che dei numeri, delle cifre personali, ha sempre fatto un argomento decisivo per vincere ogni critica, per domare ogni cattiveria. Dev’essere proprio questo eccesso, dalla polvere agli altari secondo un costume che non è solo italiano, a suggerirgli quel sentimento di appagante soddisfazione con cui Inzaghi è riuscito a superare ogni ostacolo, a cancellare la tribuna di Istanbul, finale Champions targata 2005, e altre scelte di Ancelotti e Donadoni patite tutte con un orgoglioso silenzio, facendo filtrare i malumori e la rabbia che sono diventate, alla fine, le sue proteine, le energie vitali per resistere in fondo a una stagione scandita da qualche eclissi, da troppi infortuni e ricadute, da poche, mirate prestazioni, scelte nel calendario, prima a Monaco in Baviera, poi col Manchester a San Siro, quindi ad Atene dove è arrivato sospinto dall’incoraggiamento di Silvio Berlusconi, il presidente.
E adesso per completare l’opera, più che al prossimo viaggio in Lituania, mercoledì sera, Pippo Inzaghi ha già rivolto la sua attenzione a quello che verrà, alle sfide di Milanello con Ronaldo e con Eto’o, magari con lo stesso Gilardino. Non è da lui, da SuperPippo cannoniere, abbandonare la scena in punta di piedi, farsi da parte in silenzio, a 34 anni con numeri e cifre che parlano un linguaggio eloquente. «Io nella concorrenza mi esalto» manda a dire e forse parla più che ai suoi rivali in azzurro, a quelli che vogliono fuggire da Milanello.
In azzurro ha molto sofferto dopo aver molto gioito.

A Duisburg, si sentì sopportato più che una pedina integrante, funzionale, grazie a quel golletto con dribbling largo e rotondo sul portiere della Repubblica Ceca. Soffrì le pene dell’inferno resistendo a ogni tentazione polemica. «L’interesse della nazionale è il bene supremo» ripetè in quei giorni. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivata l’ora di completare l’opera.

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