«Sono stato in galera per troppi anni, ma oggi tutto il Tibet è un’enorme gabbia...Un anno fa, dopo la rivolta di Lhasa sono tornati a cercarmi, ma io non sopportavo l’idea della prigione, ne ho fatta troppa, meglio morire scappando che quell’inferno. Così sono fuggito in montagna e ho aspettato l’inverno. A dicembre, quando i ghiacci hanno chiuso i passi mi sono messo in marcia verso l’Everest». Sonam Dor Jee, 37 anni tre mesi fa, è riuscito a raggiungere Dharamsala, la capitale del «piccolo Tibet» in territorio indiano dove vivono il Dalai Lama, il governo in esilio e migliaia di profughi. Per farcela ha marciato per 13 giorni lungo il «sentiero della morte bianca». È la strada per la libertà ma anche una scelta rischiosa e disperata - come spiega al Giornale questo fuggitivo condannato nel 1992 a 13 anni di carcere per aver sventolato una bandiera tibetana durante una protesta. «Potevo perdermi tra i ghiacci, morire assiderato... capita a tanti, ma non avevo scelta - racconta al telefono da Dharamsala - l’inverno è l’unico momento in cui puoi tentare la sorte: il ghiaccio chiude i crepacci e i soldati cinesi non osano allontanarsi dai loro avamposti».
Cosa significa finire in un carcere cinese?
«Significa torture, soprusi e rieducazione. Nel 1992 ci arrestarono in 80, ma io e una decina d’altri siamo stati interrogati per 5 mesi di fila. Volevano il nome dell’organizzatore delle proteste. Ci tenevano appesi al soffitto e ogni notte ci bastonavano o ci torturavano con il bastone elettrico. Alla fine rinunciarono e ci mandarono in tribunale. Uno di noi non si è mai ripreso ed è morto in carcere mesi dopo».
Come fu il processo?
«Non ci fu un vero processo. Ci portarono davanti ai giudici senza avvocati e non ci fecero dire una sola parola. La corte ci guardò, lesse le accuse e recitò una sentenza già pronta».
Dove ha scontato i 13 anni di pena?
«A Drap Chi, la prigione a nord di Lhasa per i prigionieri politici. Vivevamo ammassati in 12 in una camerata, con un buco per i bisogni e un unico grande rettangolo di cemento umido per letto. Ci davano da mangiare pane e verdura bollita, quasi sempre marcia o con i vermi. Avevamo un libretto in cui si spiegava che il Dalai Lama è un traditore, vuole dividere la nazione cinese e cospira contro il popolo. Durante la rieducazione dovevamo ripetere all’infinito quelle frasi. Chi si rifiutava finiva appeso al soffitto, bastonato e torturato. Nel ’98 sono iniziati i lavori forzati, coltivare e raccogliere ortaggi fino al 2005 quando mi hanno liberato».
Cos’è successo lo scorso anno a Lhasa?
«Non lo so, un anno fa gli amici mi hanno detto di scappare perché la polizia e l’esercito stavano portando via le persone schedate. Sono arrivati nel mio villaggio, ma io ero già sulle montagne. Chi è rimasto è finito di nuovo in galera, in 12 mesi tutti i miei amici sono stati arrestati».
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