Il maresciallo in congedo dei carabinieri Roberto Longu ha fatto parte del Crimor-Unità militare combattente, l’Unità della 1ª Sezione del 1° Reparto del Ros nata subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, nel settembre del ’92, con compiti di contrasto alla criminalità organizzata. Il gruppo, guidato da Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, il 15 gennaio del 1993, a Palermo, mise a segno il colpo più grosso: l’arresto del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. Il maresciallo Longu nella sua lettera racconta come andò quella cattura. E spiega perché, quando intervennero i giudici, tutto finì.
Roberto Longu
Egregio direttore,
sono un maresciallo dei carabinieri in congedo, nonché appartenente a Crimor, il gruppo del capitano Ultimo che ha arrestato Totò Riina. Le scrivo perché dopo aver sentito sciocchezze tra la trattativa di Stato e la mafia, il tentativo di colpo di Stato, l’arresto di Riina, le accuse al capitano Ultimo, al generale Mori e generale Ganzer, voglio offrire il pensiero e il racconto di chi le cose le ha vissute e fatte in prima persona.
Massimo Ciancimino parla e dopo vent’anni si torna a parlare con insistenza della morte di Falcone e Borsellino, trattativa tra mafia e Stato; politici e magistrati che parlano di tentativo di colpo di Stato, servizi segreti deviati, signor Franco eccetera... La grande mano del «livello superiore», intoccabile e soprattutto introvabile, la solita storia. Infangare il Paese e chi ha veramente lavorato per il bene dell’Italia.
Ebbene, voglio raccontare in breve la storia della cattura di Totò Riina. Il nostro gruppo, Crimor, lavorava a Milano occupandosi di Cosa nostra. Tutti dicevano che a Milano la mafia non esisteva. In pochi anni, con varie indagini mettiamo in luce che a Milano la mafia esiste ed è anche ben radicata, arrestiamo e sgominiamo le famiglie Carollo e Fidanzati. Siamo un gruppo di professionisti coordinato da un grande comandante, il capitano Ultimo. Siamo anche molto amici di Falcone, e facciamo riferimento a un grande generale, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il nostro simbolo. Il nostro motto è «lavorare per il popolo oppresso».
Il giorno della morte di Falcone ci ritroviamo nel nostro ufficio e siamo sgomenti; ci guardiamo in faccia, siamo una decina, e prendiamo una decisione che nasce spontanea. Andiamo a Palermo ad arrestare Totò Riina e smantellare la sua organizzazione. È quel giorno che nasce la fine di Riina. La mafia ha ammazzato il generale, giudici, colleghi, ora Falcone e in quel modo, ci sentivamo in dovere di fare qualcosa e mettere fine al massacro. Nessuna organizzazione segreta o chissà quale piano strategico messo in piedi con la mafia. Dieci persone che disprezzano la mafia e lavorano per il popolo oppresso decidono di catturare Salvatore Riina, l’imprendibile.
Viene data comunicazione delle nostre intenzioni al generale Mori, che a quel tempo era colonnello e vicecomandante del Ros, il quale inoltra le nostre intenzioni direttamente al Comando che accetta e ci dà il via. Di quel tempo ricordo una cosa, il terrore delle istituzioni, Totò Riina imprendibile che mette sotto scacco l’Italia, le grandi lacerazioni della magistratura palermitana, che era quasi tutta schierata contro Falcone e Borsellino che quasi venivano presi per pazzi. Oggi parlano bene, ma ieri razzolavano male, molto male.
Fui io, insieme al mio collega Ombra, a mettere per primo il piede a Palermo; facemmo le prime ricognizioni, le prime verifiche sugli obiettivi e sui personaggi. Rimasi quasi sconvolto per la mancanza di indagini, riscontri, indizi investigativi. La magistratura faceva pochissimo, le forze di polizia operavano fuori Palermo, la politica proprio non si vedeva e sentiva. Oggi mi viene da ridere quando sento tutti quei magistrati di Palermo che parlano di Antimafia. Ma dove erano allora? Cosa facevano?
Naturalmente l’indagine nasce in clandestinità, non ci fidavamo di nessuno, va avanti per circa sette mesi di grandi sacrifici, troviamo gli indizi, le tracce di Riina attraverso i Ganci e arriviamo vicino al suo rifugio, pochi giorni e avremmo trovato la casa.
Il fato ci mette la coda. In quei giorni al Nord viene arrestato Balduccio Di Maggio, che si pente e dice di essere stato l’autista di Riina sino a qualche anno prima.
Viene portato a Palermo, racconta che quando faceva da autista prendeva Riina lungo la strada, alla Rotonda di viale Michelangelo, vicino al famoso Motel Agip, senza però indicare un obiettivo preciso. Per noi quella zona era altamente strategica poiché avevamo individuato un obiettivo frequentato dal mafioso Domenico Ganci, da noi ritenuto molto vicino a Totò Riina. Mettiamo sotto osservazione un’abitazione e filmiamo chi entra e chi esce, li facciamo visionare al pentito il quale riconosce la moglie e i figli di Riina. L’indomani ci posizioniamo, esce Riina e l’arrestiamo. Questo in breve.
Il pentito è stata la nostra sfortuna più grande. In primo luogo perché ha fatto sì che l’indagine fosse conosciuta dalla magistratura, la seconda perché non è stato più possibile portarla avanti con le nostre modalità operative. Noi, per nostro modus operandi, quando trovavamo un latitante non lo arrestavamo subito, anzi lo facevamo stare libero, però lo seguivamo, gli stavamo vicino 24 ore su 24 per capire i suoi percorsi, analizzare i suoi obiettivi, verificare la struttura organizzativa, documentarla, farne prova e poi annientare l’intera struttura. Questo era in origine il nostro obiettivo con Riina. Analizzare i suoi movimenti, le dinamiche operative di Cosa nostra partendo dal vertice, studiare i loro percorsi mentali per poi annientarli e distruggerli. Questo era il nostro obiettivo finale, con il risultato immediato di catturare Riina e distruggere la cupola.
Dopo il pentito questo non fu più possibile, tutti volevano esclusivamente l’arresto di Riina. Tutti volevano dirci cosa fare, fu solo grazie alla determinazione del colonnello Mori e del capitano Ultimo che le cose andarono come sono andate, altrimenti penso che Riina l’avrebbe fatta franca anche allora.
E per fortuna che andò così, se avessimo fatto secondo i nostri propositi ci avrebbero arrestati tutti per essere mafiosi, visto com’è andata con la perquisizione, non fatta solo esclusivamente per questioni investigative e legate all’indagine.
Parla Massimo Ciancimino, si parla di trattativa mafia-Stato, papello e terzo livello. Per noi Vito Ciancimino all’interno della mafia a quel tempo non contava più niente, roba vecchia che la mafia aveva abbandonato, com’è suo costume quando una cosa non serve più. È stato ascoltato perché voleva parlare, com’è giusto che faccia un investigatore quando si presenta un criminale. Probabilmente oggi una certa magistratura, se non fosse stato ascoltato, direbbe che non fu sentito per aiutare la mafia. Politici di oggi e di ieri e magistrati che parlano di trattative tra Stato e mafia. Dovrebbero spiegare cosa facevano allora, visto che facevano parte dello Stato. Può mai un generale o un capitano trattare per lo Stato senza che questi non sappia nulla? Io penso di no.
È di questi giorni la notizia della condanna al generale Ganzer e colleghi, questo deve far riflettere e molto sullo stato della magistratura e delle forze di polizia. Deve far riflettere perché ormai è sempre più evidente l’anomalia del Codice di procedura penale, ovvero le indagini dirette e coordinate dai magistrati. È qui l’errore di fondo. Un magistrato non può gestire delle indagini, le indagini le devono gestire e fare le forze di polizia. Perché, vede, un’indagine è un processo sociale, in quanto coinvolge la gente; è un processo psicologico in quanto coinvolge le strutture mentali delle persone; è un processo sistemico dove la cosa più logica alle volte non è la più giusta per il fine superiore, che è quello del bene comune. L’indagine è compito del poliziotto che vive e opera tra la gente, che conosce la strategia, la tattica e il terreno su cui combatte.
Ma lei ha mai visto un magistrato fare un pedinamento, uscire per strada e seguire un mafioso o un presunto ladro di biciclette? Io mai. E allora come fanno a dirigere le indagini (e dirigere significa comandare) quando non hanno la benché minima conoscenza del sistema? Un vero investigatore trova i riscontri e gli indizi sul terreno attraverso osservazione e pedinamento, e solo allora chiede le intercettazioni. Perché le intercettazioni per gli investigatori sono delle vere sciagure, hanno bisogno di verifiche, controlli, molto personale levato alla strada. Un investigatore intercetta solo quando c’è quasi la certezza dei reati. Per un investigatore le intercettazioni sono di ausilio alle indagini e non lo strumento principale.
Oggi siamo al contrario, si fanno le intercettazioni, si arrestano e si mettono alla gogna i cittadini senza un riscontro oggettivo e poi vengono scarcerate e tante scuse e grazie. C’è bisogno di cambiare il Codice di procedura penale e dare la direzione delle indagini alla polizia. I miei ex colleghi mi dicono che ormai non fanno più nulla di iniziativa, hanno paura di lavorare perché un magistrato potrebbe indagarli e metterli alla gogna peggio dei criminali. Io stesso oggi, vedendo com’è andata ai miei comandanti, non so se prenderei le decisioni che ho preso in passato. Sa cosa mi dice mia figlia a proposito dei guai al generale Mori e capitano Ultimo? «Papà, Riina era da vent’anni latitante e non è successo nulla, voi lo arrestate, mettete sotto la mafia e i magistrati vi incriminano.
*Maresciallo dei carabinieri in congedo - Componente del gruppo guidato dal capitano Ultimo che arrestò Totò Riina
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