nostro inviato a Latina
Ormai dev'essersi abituato. Porta sulle spalle uno zaino colmo di sventure, ma Fabrizio Roma le racconta senza scomporsi: la malattia addosso, le disgrazie capitate ai figli: «Sono rassegnato, che devo fare? Fossi rimasto in campagna, avrei avuto un'altra vita. È andata così». Gli occhi trasmettono nostalgia e dignità. La vita di Roma è segnata da una data: l'arrivo alla Goodyear nel 1969. «Avevo il miraggio del posto sicuro. Andai al reparto verniciatura: spruzzavo un liquido azzurro e nero. Una situazione pesantissima: nel capannone c'era una nebbia perenne, non si respirava, si mangiava polvere. Un inferno».
Un anno, un anno e mezzo, poi il destino mette le mani dentro casa Roma: «Venne al mondo il primo figlio, aveva una malattia rarissima; no, il nome non glielo dico. Non parlava, aveva un handicap devastante, i medici del Gemelli gettarono la spugna e mi dissero che non capivano. Però nella mia testa e in quella di mia moglie cominciarono a serpeggiare i primi dubbi».
Roma prosegue tranquillo: «Nello stabilimento si sparse la voce che i sindacati prendevano le mazzette dall'azienda. Lo sapevano tutti ma tutti tacevano. Io avevo paura: guai a denunciare, avrei rischiato il posto garantito che mi aveva convinto a lasciare i campi. Non si poteva fare niente, solo pensare che quell'ambiente schifoso fosse collegabile in qualche modo alla malattia di mio figlio. Poi non ci pensai più».
Tre anni dopo, il destino gioca il secondo scherzo alla famiglia: «Mia moglie ebbe un parto gemellare. Uno dei due neonati era sano. L'altro invece non mangiava: i soliti medici del Gemelli mi spiegarono che pure lui aveva una malattia rarissima. Morì a tre anni, no il nome non glielo dico. Poveri i miei due figli: quello che non c'è più e l'altro che sta in istituto a Viterbo, e lo porto a casa a Natale. Mi riconosce, capisce che sono suo padre e questo mi basta. Per fortuna che c'è Massimiliano, di quello il nome glielo posso dire: si è laureato con 110 e lode, è tutto quello che ho, rappresenta la speranza di un futuro migliore».
Fabrizio Roma lavora per una vita in quella fabbrica: «Passavo da un reparto all'altro, pulivo il tetto di amianto e a volte venivano giù dei pezzi. Io avevo sempre quei dubbi dentro di me, ma i sindacati non dicevano niente. Io che all'inizio ero iscritto alla Cgil, a un certo punto stracciai la tessera».
Roma abbandona il sindacato, ma quell'impasto di fatalismo e di incoscienza lo spinge ad andare avanti, quasi per forza di inerzia. «Del resto guadagnavo bene: due milioni al mese, negli anni Novanta». E i sindacati? «I sindacati, così dicevano tutti anche se ovviamente non avevamo le prove, prendevano i soldi dall'azienda per tacere sulle condizioni di lavoro e per spingerci a produrre di più. Loro, i sindacalisti, non lavoravano mai e non ci ascoltavano mai. Poi c'era il medico. Io a intervalli regolari facevo le analisi, come tutti, ma risultavano sempre regolari. Strano: in fabbrica cominciò a girare un'altra voce: i controlli e le analisi erano finti, lui si limitava copiare i dati dalle schede precedenti, non trovava mai a nessuno un valore fuori posto».
E invece a Cisterna di Latina di cose fuori posto ce n'erano tante. Troppe. «Ho partecipato ad almeno sessanta funerali di colleghi, uno strazio ogni volta, e il prossimo potrebbe essere il mio».
Fabrizio Roma fissa l'interlocutore: uno sguardo tranquillo, quasi estraneo a quel che sta raccontando. «Nel '97, appena passato il giro di boa dei cinquant'anni, mi sono ammalato anch'io. Come i miei figli, io che ho nove fratelli e cinquanta nipoti tutti senza problemi. Un tumore alle vie urinarie, un intervento complicato e lunghissimo: mi hanno tolto la prostata, mi hanno spostato la vescica. Avrei firmato per vivere ancora qualche anno, invece eccomi: sono ancora vivo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.