«Io non lancio anatemi, ma lei è una ignorante»

«Non ho aggredito nessuno, ho replicato con calma alle falsità che ho sentito. Insulti? Era una constatazione: la signora non conosce il Corano»

Gianandrea Zagato

da Milano

Ali Abu Shwaima garantisce che, lui, non emette fatwe. Lo fa con un’e-mail: trentacinque righe a il Giornale per spiegare che le sentenze di morte non sono affare suo. Assicurazione diretta non ai cronisti di via Negri bensì a Daniela Santanchè, vittima di un’aggressione verbale andata in onda su Sky. Email per evitare un’intervista, un botta e risposta attorno all’islam e a quel velo che è solo la punta dell’iceberg della questione islamica.
E così, senza contraddittorio, Ali Abu Shwaima racconta che Daniela Santanchè non è stata aggredita: «Lo scrivente tentava di rispondere, ma veniva ripetutamente interrotto dalla signora con affermazioni prive di fondamento di dottrina islamica» e quindi, continua, nel suo italiano, «con calma replicavo sottolineando la mancanza di veridicità delle interruzioni e la mancanza di conoscenza del testo coranico da parte dell’interruttrice con l’aggettivo “falso” e il participio attivo del verbo ignorare, “ignorante”, non in senso spregiativo ma constatativo».
Arrampicata sugli specchi, dopo una giornata che l’imam ha passato tra le preghiere e il raccoglimento nella moschea di Segrate. Ore trascorse salmodiando il Corano proprio in quei locali sorti nel 1988 alle porte di Milano, dove il medico d’origine palestinese è solito rilasciare interviste di questo tenore: «O si seguono i dettami dell’Islam o non si seguono, o si è buoni musulmani o non si è» e, quindi, «non ha senso la distinzione tra fondamentalisti e moderati». Parole che hanno un senso se accompagnate da quell’iniziale, «alla fine vincerà l’Irak, l’America non riuscirà a soggiogarlo» che l’imam - sedicente lo definisce Magdi Allam - ora evita accuratamente di ripetere.
E così a fine giornata, dopo aver tentato inutilmente di raccogliere la sua opinione, arriva quell’e-mail con la sua storia «individuale di musulmano in Italia» che, sostiene, dimostrerebbe «abbondantemente di aver sempre condannato, in pubblico e in privato, tutte le forme di violenza, da chiunque messe in atto». E vai con il ricordo di quando, nel 2003, è stato «vittima di un attentato mortale, che soltanto la mano di Dio, ha sventato». Storia che nei titoli dei giornali è stata archiviata come «un giallo in moschea», mentre altro titolo ebbe quell’altra storia avvenuta nella moschea di Segrate e che l’imam (sedicente) via e-mail evita accuratamente di raccontare. Fu condannato a 5 mesi di reclusione perché considerato il regista di una serie di pratiche sanitarie e microchirurgiche avvenute in un ambulatorio clandestino all’interno della moschea.
Storie di ieri che, forse, oggi per Ali Abu Shwaima sono solo un altro spezzone diffamatorio. Magari, come quello che, lui, sostiene «si sta mettendo in piedi, in concerto con le esternazioni del signor Magdi Allam»: «Campagna diffamatoria in cui, oltre al travisamento (doloso) del significato delle parole dette, vengono confezionate affermazioni, mai affermate, il cui evidente scopo è quello di fomentare odio e paura nei confronti della presenza islamica in Italia».


Peccato che, a smentire, c’è una moviola che fotogramma dopo fotogramma ripercorre quell’aggressione, quell’attacco verbale contro l’onorevole Santanchè colpevole di ritenere «il velo non un simbolo religioso ma politico», non «un simbolo di libertà ma di oscurantismo».

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