nostro inviato a Vienna
Qualche timido applauso delle ragazze di casa azzurri, un paio di autografi richiesti in gran silenzio. Si può perdere e si può uscire di scena in mille modi, facendo un rumore assordante o sollevando un polverone incredibile, per esempio. Oppure alla Donadoni, riscuotendo un timido applauso, firmando un paio di autografi, inarcando appena un sopracciglio, con due rigori sbavati che sono poi la sua maledizione personale (perse un europeo under 21, la semifinale con lArgentina a Napoli e la finale mondiale a Pasadena), senza sbandierare giustificazioni legittime (da Cannavaro a Barzagli le stilettate della sorte, le squalifiche di Pirlo e Gattuso), senza neanche attaccare a testa bassa critica e dirigenza federale che si apprestano a mandarlo in soffitta.
Roberto Donadoni è questo, nel calcio come nel privato: ondeggia tra luci e ombre senza abbagliare mai, senza nemmeno provocare notte fonda. Per dirla con una definizione storica che Antonio Sibilia, presidente dellAvellino, diede di Rino Marchesi («è come quel medico che non ti fa mai morire ma non ti fa mai stare bene assai»). Così il suo europeo: da 5,5, insufficienza piena, con qualche errore del Ct, una dose di sfortuna evidente, molti tradimenti dei suoi, a cominciare da Toni per finire a Cassano e allItalroma, troppo piccola e provinciale. Dinanzi a una contabilità del genere, un Ct può anche rovesciare il tavolo. No, Donadoni no. Lui ripete monotono ma sincero: «Non cambio idea sui miei per due rigori sbagliati. I ragazzi hanno dato il massimo, siamo usciti bene dal girone della morte, siamo caduti sui rigori». E anche al cospetto di un epilogo ormai scontato, scritto sui giornali e non solo, la sua serenità regna sovrana. «Sono tranquillo, ne riparlerò con il presidente e tireremo le somme. Non mi preoccupa lidea di un eventuale esonero» ammette senza ipocrisia perché di questo si tratta, questo è ciò che laspetta.
Perciò non risulta sfiorato dallidea delle dimissioni. «Promisi che lavrei fatto se leuropeo fosse andato in un certo modo» rievoca. Ma non vuole neanche restare a dispetto di critici, tifosi e federali. «Non voglio dire se merito o no la riconferma, dico solo che vado avanti senza spinte o appoggi» la frase. Non lo sfiora neanche il rimorso di non aver provato, contro la Spagna, a vincere rischiando di perdere e prima dei supplementari. «Potevo far entrare prima Del Piero, ho aspettato perché temevo qualche altro giallo ma è lunico. Ho affrontato la Spagna come la Francia, è cambiato il valore dellavversario, qualche volta vale la pena ribadirlo» spiega. E persino lalgido Abete, come viene definito il presidente da un cronista, non è un nemico da cui difendersi. «A colazione abbiamo parlato. Glielho detto: sono felice per aver vissuto questi 2 anni in Nazionale. Anzi, cè affinità di carattere tra noi due. Alla fine parleranno i fatti e sui fatti darò la mia valutazione»: sembra quasi centrato dalla sindrome di Stoccolma, la vittima che si innamora del suo aguzzino. Il Ct è disposto a tutto, a pesare ogni gesto, non a liquidare con un aggettivo o con un voto la prestazione complessiva delleuropeo che resta deludente per i più. «Sotto il profilo umano mi sono sentito gratificato dalle lacrime di Pirlo o dagli occhi di De Rossi, il resto conta relativamente» sostiene.
Perciò non se la sente di raccontare perché ha tenuto Toni (trascurando Borriello e lasciando a casa Inzaghi) in campo nonostante il deficit di gol («facile dirlo adesso»), perché ha preferito Perrotta a Camoranesi più reattivo («voi non vedete tutti gli allenamenti come me»), perché ha tenuto Cassano largo a sinistra («gli ho detto di cambiare posizione nellintervallo»), perché si porta a casa letichetta, non proprio esaltante, di Nazionale brava solo a difendersi. «Non è stata una strategia voluta» la sua correzione distinto. «Il risultato complessivo non è stato straordinario, non ci vuole Zichichi per capirlo, straordinario considero il comportamento del gruppo» ammette. Prima di declinare la rabbia che cova dentro e limpossibilità di sfogarla.
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