Io, opera d’arte per un giorno

S’avvicina una signora impellicciata: «Fate parte della mostra?». Ti squadra come se fossi una statua, poi passa dall'altra parte. Di fronte, dove c'è un altro uguale a te. Lui parla, però: «Sì, siamo gemelli. Veri gemelli e facciamo parte di quest'opera». Non dev’essere una che se ne intende d'arte la signora: fa finta d'aver capito e se ne va. Noi restiamo qui, agli estremi. Io e il mio doppio. Lui e il suo doppio. Uno da un lato, uno dall'altro, dirimpettai identici, accanto alla nostra fonte. Siamo dentro una mostra, siamo un pezzo dell'opera: protagonisti volontari del progetto dell'artista italiano Pietro Roccasalva. Siamo due più uno. Tre. Siamo Zurvan, un dio persiano di un tempo antico: un trino, un padre e due gemelli. Siamo anche arbitri perché custodiamo questo tempo e questo luogo come gli arbitri custodiscono un campo di calcio e la durata di una partita. Siamo giudici, anche. Siamo il curatore della mostra che s'è fatto in tre. Il curatore vero è uno, cioè il mio doppio. Sua l'idea di invitare qui a New York Roccasalva che poi ha invitato lui a essere parte del lavoro. Era perfetto: il curatore è un gemello monozigote. «Chiamiamo il fratello e il padre e facciamo un quadro vivente».
Eccoci qua. Quattro ore al giorno, tra la folla dell'Armory di Park Avenue. Tra centinaia di persone. Tra curiosi che non capiscono e che s'affrettano a leggere il pannello di presentazione dell'opera e tra appassionati che invece fanno su e giù con la testa perché hanno capito tutto. Si entra e si esce. C'è chi torna, chi s'avvicina a un millimetro per capire se sei vero e soprattutto se quello là dirimpetto a te è un'altra persona che t'assomiglia come nient'altro sulla faccia di questa terra, oppure se è un dannato gioco di riflessi. Perché la stanza è nella penombra e può nascondere l'insidia. Allora pensi che spesso è inutile: i gemelli fanno ancora impressione. Fanno sorridere, riflettere, pensare. L'identità e l'identicità che non è mai uguale davvero. Ogni volta le stesse domande: «Ma è vero che se si fa male uno, sente dolore anche l'altro?». Un gemello può spiegare all'infinito, ma non sarà mai capito se non da un altro gemello. Gli altri la prendono come una specie di strano-ma-vero. Qualcuno ha persino timore: ora s'affaccia all'ingresso della sala e non entra, come se rispettasse l'intimità di questo pezzo di famiglia vestito in maglia e calzoncini neri mentre fa la guardia a una risma gigante di fogli che assomiglia a una piazza dove è caduto un arancino di riso gigante che è il sole schiantato al suolo perché è finito il suo tempo e quello di tutti gli altri. Sulla parete opposta a noi un neon riporta una frase di Jacques Lacan: «Tu non mi guardi mai là da dove io ti vedo». La citazione gira e finisce al contrario: per leggerla hai bisogno dello specchio che le sta dalla parte opposta. Adesso è tutto più chiaro. Non c'entra coi gemelli, però qualcosa torna in mente: quando tu guardi il tuo doppio pensi di vedere un pezzo di te, invece stai osservando un'altra persona che potrebbe essere diversissima.
Però non c'entra ora. Qui siamo fermi per fare la guardia. Il mio doppio spiega: è l'unico che può parlare perché sa. Questa situazione l'ha studiata lui con l'artista. Racconta e quelli che lo ascoltano fanno da destra a sinistra con la testa. Prima lui, poi me. Come se giocassero alla settimana enigmistica: scopri le sette differenze. Oppure otto, nove, dieci. Scattano le foto. Almeno non usano il flash. C'è chi prende appunti. Poi apri il New York Times. Pagina 36 della sezione arte. Ci siamo: il trino, padre e due gemelli. La foto di tre statue viventi. Una c'ha la faccia fuori dall'asse giusto. Sei tu. È un errore, però ti dicono che non fa niente.

Poco prima è entrato Woody Allen: un'occhiata all'arancino. Ha sentito il profumo. Poi i fogli, lo specchio, il neon. La spiegazione scritta. Ha sorriso. Forse tutta questa realtà per lui è troppo surreale.
Giuseppe De Bellis

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