«Io pacifista, sparo in un western

È il tipo con lo schioppo, doppietta calibro 8. Si rammenda da solo il foulard da pistolero, si chiama Everett, spara per primo («parlano i fatti, non le chiacchiere», dice) e preferisce finire la sua tazza di caffè prima di salire sul crinale, nel New Mexico, a vedere che cosa fanno gli indiani. Ma, soprattutto, crede nell’amicizia maschile, in quel solido legame tra uomini tutti d’un pezzo, laggiù nel Vecchio West, quale forse conobbero, nell’antica Grecia, Achille e Patroclo. Così Viggo Mortensen, il primo divo del Festival romano, ieri ha entusiasmato in Appaloosa, western classico con un pizzico d’introspezione diretto, sceneggiato (con Robert Knott) e interpretato dal cinquantasettenne Ed Harris (qui Virgil, l’amico sceriffo). Ormai Mortensen, poeta, musicista e pittore, oltre che interprete particolarmente caro alla platea giovane (piacque il suo Aragorn, nella saga de Il signore degli anelli) è di casa all’Auditorium, dove non solo figura, in concorso, pure nel drammatico Good (film di Vicente Amorim, ambientato all’epoca nazista), ma animerà un incontro col pubblico, presentando, tra l’altro, alcune sue composizioni musicali e poesie inedite. Già, perché questo newyorchese, nato nel 1958 da madre americana e padre danese, ha molto talento per la vita e per l’arte: lo sanno bene registi del calibro di David Cronenberg, Sean Penn e Peter Weir, che hanno diretto il longilineo, tra i cinquanta più belli del mondo (stando alla rivista Usa People), sempre pronto a scrivere poesie (una sua raccolta s'intitola, romanticamente, Last Night, L’ultima notte), a suonare jazz dal vivo, a organizzare mostre delle sue fotografie, a incidere Cd, a stampar libri con la sua «Perceval Press», piccola casa editrice indipendente. Divorziato dalla cantante punk Exena, madre del loro Henry, Viggo sembra proprio un faticone. Le donne lo apprezzeranno mentre in Appaloosa aspetta, a piè fermo, la canaglia Bragg (Jeremy Irons) per sparargli e togliere di mezzo un mascalzone. Di profilo, infatti, gli stivali e il cinturone sagomati dal tramonto, appare sexy per quant’è virilmente indignato. Gli uomini, magari, potrebbero apprendere dal suo Everett come si fa a tener dritta la schiena, tra serpenti a sonagli e iene umane.
Caro Viggo Mortensen, in «Appaloosa» il suo personaggio di amico leale, sempre al fianco del suo sodale come vice, è molto intenso. Che cosa l’ha spinta a lavorare con Ed Harris?
«L’amicizia. Ci conosciamo dai tempi di History of Violence e stavolta m’ha interessato il racconto. E il ranch, l’infelicità, la forza dei personaggi. Poi, i dettagli curati da Ed e un concetto: le regole cambiano, le persone invecchiano. Tutto cambia: questo è il senso del film».
È raro vedere un western classico, genere che sembrava appannato...
«In effetti, western che seguano la tradizione non ce n'è molti, Anche se è un genere tipico, per noi americani. Qui, però, c’è un personaggio moderno: quello della donna. Ed è moderna la parità tra i sessi, in quest’opera sottile».
Ha aggiunto un po’ del suo proverbiale umorismo, nei dialoghi?
«Ho dato qualche suggerimento, certo. Nel film, io ed Ed siamo una specie di vecchia coppia sposata da tempo... Siamo abituati a parlarci con lo sguardo, col silenzio, a fare battute asciutte. Del resto, io vengo dall’Accademia militare di West Point, dunque, sono addestrato a capire chi ho di fronte».
Lei è noto per essere un pacifista: qui le tocca sparare, per farsi giustizia. Che ne pensa di certi atti estremi?
«Il racconto non aspira al “politicamente corretto”: è un racconto e basta. All’epoca, funzionava così. Oggi abbiamo più giudici, più forze di polizia, rispetto all'Ottocento e al Vecchio West. Ma del film mi piace proprio il fatto che non provi a giustificare i comportamenti. Io ed Ed ci limitiamo a far rispettare la legge».


È vero che Ed Harris voleva il suo personaggio?
«Gli sarebbe piaciuto. Ma ormai siamo talmente intercambiabili che poco importa chi fa cosa. L'importante è ottenere un buon film, grazie alla collaborazione e all'entusiasmo».

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