«Io, partito come riserva e scampato al gelo»

Angelo Blasetti (90 anni il 4 giugno prossimo) è un reduce della campagna di Russia. Ecco come ricorda la sua esperienza di guerra.

Nel 1942 avevo 22 anni. Ero ufficiale del reggimento carristi «Ariete» destinato in Africa. Durante un congedo (fine maggio) vengo convocato al comando supremo dove ricevo la comunicazione che sono atteso alla Stazione di Vienna. Lì, al comando di tappa, ricevo la comunicazione d’essere destinato in Russia, come responsabile dell’autodrappello del comando d’armata in sostituzione di un ufficiale ammalato.
Il viaggio mi porta prima a Cracovia, poi a Leopoli e a Stalino, dove prendo servizio. Tra le attrezzature, oltre ai mezzi, c’erano anche diversi autobus attrezzati come carrozza-letto e carrozza-cucina; tali attrezzature, però, furono utili solo d’estate. Agli inizi del luglio ’42 comincia l’avanzata. Dopo la conquista di Vorošilovgrad proseguiamo fino a Millerowo, dove restiamo tutta l’estate. Tornati a Starobiesch prima del 19 dicembre, si verifica la rottura del fronte per due attacchi russi, uno a sud sul fronte rumeno e l’altro sul fronte ungherese. Ce la passiamo brutta. Ma, essendo a 40 chilometri dal fronte, ce la caviamo. Da Starobiesch in dicembre riceviamo l’ordine di ritirata: 600 chilometri vengono percorsi con i mezzi e poi in treno da Kiev fino in Italia.
Durante il rientro, rimasto unico ufficiale del reparto, mi appoggio agli altri sottufficiali più anziani ed esperti (erano reduci dell’Albania e avevano fatto il primo anno di campagna in Russia, quindi sapevano come resistere all’inverno con la temperatura che scendeva fino a -42°). Il mio reparto era composto da 170-180 uomini, e riportammo in Italia tutti i mezzi, eccetto uno, perso in un incidente. La ritirata fu terribile perché percorremmo i territori occupati dai tedeschi, con i quali i rapporti furono pessimi: si ebbero forti contrasti anche armati. Il ritorno toccò Harkof, Konotop, Kupiansk, Kiev.
Il 24 dicembre ’42 in un posto di ristoro a Kupiansk incontrai il reatino Rosati-Colarieti. Verso gennaio ’43 riparai in un’isba e notai che la brandina era piena di pidocchi. Così misi i piedi nei barattoli di nafta, ma i pidocchi scesero dal soffitto e m’infestarono. Verso il 10 marzo, giunti a Kiev, ci lasciammo andare alla bella vita. A teatro una sera mi presentarono una cantante lirica anziana, molto curata nell’aspetto ma vistosa e poco attraente. Mi disse di aver cantato in Italia con il baritono reatino Mattia Battistini. Saputo che sono originario di lì, mi vuole abbracciare e baciare, ma la respingo. Conosco anche una giovane e bella ballerina russa che mi seduce con questa frase pronunciata in tedesco: «Se una donna dice “no” è forse; se una donna dice “forse” è sì; se una donna dice “sì” non è una donna». E io, interrogatala, rispondo «No». Ma poi riparto.
A Kiev saliamo in treno, dove carichiamo i mezzi e, dopo oltre una settimana (spesso eravamo deviati su binari morti per favorire il passaggio delle truppe che andavano al fronte), siamo in Italia. Il 26 marzo ’43 sono a Gemona, poi a Osoppo, in un campo di contumacia per 15 giorni per evitare la diffusione di un’epidemia di tifo petecchiale. Nel campo sono assieme ai resti della divisione «Julia» (da 10mila che erano ne sono tornati 2mila). Il 12 aprile da Osoppo andiamo a Padova, quindi in treno a Pavia e poi licenza di un mese a Rieti. Torno a Padova il 27 agosto. L’8 settembre sono a Pavia in servizio: la città festeggia l’armistizio. Dal giorno dopo sono chiamato in caserma perché i tedeschi stavano attaccando; mi propongo volontario e con un plotone di 40 soldati sono inviato a difendere un ponte sul Piave.

Il 10 la situazione precipita: di fronte al fuoco nemico di un carro armato tedesco, mi rendo conto che il mio plotone si è disperso dandosi alla fuga. Mi salvo fra l’ilarità dei tedeschi. Torno a casa a Pavia, indosso gli abiti civili e tento il viaggio di ritorno in treno a Rieti, dove arrivo dopo 10 giorni. Ma questa è un’altra storia.

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