Io, perseguitato per 3 anni dopo quello scoop su Gelli

La storia del cronista del «Giornale»: «I magistrati hanno passato al setaccio pure le chiamate private»

da Roma

Passi per le innumerevoli perquisizioni subite, con carabinieri e poliziotti che a turno mi hanno buttato giù dal letto per rovistare tra pentole, mutande e scartoffie varie. Passi anche per le intercettazioni sul telefonino e sul numero di casa, disposte da più Procure per rintracciare le fonti di alcuni articoli a mia firma sgraditi a pubblici ministeri imbestialiti per la fuga di notizie. Va bene tutto, fa parte del gioco. Quel che ancor oggi mi riesce difficile far passare come una cosa normale è la morbosa e costosissima attenzione, ricordata venerdì dal Messaggero, che l’autorità giudiziaria capitolina ha riservato al sottoscritto a partire dal 1998, reo d’aver rivelato ai lettori de il Giornale il nascondiglio francese dell’allora latitante Licio Gelli. Intercettazioni, osservazioni, controlli, pedinamenti, decreti d’ascolto, proroghe degli stessi, informative su informative: un metro e mezzo di carte.
Tre anni d’inchiesta, trascorsi a dar la caccia alla «talpa» istituzionale che aveva soffiato l’indirizzo del nascondiglio del Venerabile, tipo uno sbirro, una toga, un avvocato, un cancelliere, un agente segreto. Tre anni passati a scandagliare le mie telefonate ai colleghi e al direttore, a mio padre e mia madre, ai parenti tutti, ad ogni amico oltreché a idraulici, tappezzieri, medici, meccanici, persino a un frate, oltre a parlamentari, giornalisti e naturalmente, seguendo la cronaca giudiziaria, a una quantità considerevole di esponenti delle forze dell’ordine, militari d’ogni ordine e grado, magistrati, 007.
Quando nel 2001 l’avvocato del Giornale, Salvatore Lo Giudice, mi convocò scimmiottando Maria De Filippi («C’è posta per te, passa subito allo studio») non immaginavo minimamente quel che di lì a poco avrei letto in faldoni alti così. La mia vita passata riproposta integralmente al presente, nero su bianco, parola per parola, giorno dopo giorno. Dalla gita fuori porta per la sagra del tordo in Val d’Orcia a una regata nel mare di Anzio, dal gatto in amore che non fa dormire i vicini al compianto Nicola Calipari che scherza per l’articolo dove erroneamente il suo nome è stato accomunato a quello del gestore di un night chiuso per droga. Eppoi delicate questioni di salute riguardanti terzi, chiacchierate personali, banali confidenze, quotidiane comunicazioni sulla spesa da fare, le bollette da pagare, il Superenalotto da giocare. Tutto spiattellato al secondo. Con dettagli anche esilaranti. A dimostrazione di un’asserita pericolosità sociale del cronista intercettato, ad esempio, gli inquirenti ricordano prima che «a carico del fratello va rilevata una denuncia causa un reato attinente la nautica» (per aveva buttato l’ancora in una cala dell’isola di Ponza), e poi che in un’occasione ha chiamato il giornalista (...) «che ha numerosi precedenti per lesioni ed in una occasione per tentato omicidio».
Anche le frasi scambiate con i genitori vengono giudicate «d’interesse» poiché risulterebbero volutamente criptiche. Come quando disquisisco con mio padre sui chili dei fichi prodotti da un albero in giardino («un chilo, un chilo e mezzo?») o di quando, di ritorno dal mare, al cellulare faccio presente che dopo aver incontrato «una persona» mi trovo ancora alle porte di Ardea, sulla via Pontina nei pressi di Roma. Commento del poliziotto sul brogliaccio: «Si lascia quindi intendere che alcuni suoi contatti avvengono sul litorale romano».

A un certo punto, però, solo per aver scherzato con un amico («Mi raccomando Marco, al telefono saluta sempre il maresciallo») le intercettazioni vengono interrotte e l’inchiesta archiviata perché «tutto lascia intendere che il giornalista in argomento sia giunto a determinazione di costruire ad arte alcune telefonate al fine di screditare personaggi vicini all’indagine e le attività investigative ancora in atto».

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