Cultura e Spettacoli

"Io, pizzaiolo, sforno libri per lo Strega"

Lavora nel ristorante dello zio, ma con "I frutti dimenticati" è tra i candidati al prestigioso premio letterario. Eppure non si è montato la testa: "La mia scuola sono i bar di provincia, dove la gente sa ancora raccontare storie"

"Io, pizzaiolo, sforno libri per lo Strega"

È uno talmente romagnolo che se parlando vi scappa un «voi emiliani» subito specifica: «No, siamo due etnie diverse. Loro fanno i cappelletti troppo grandi e li chiamano ravioli. E bevono vino nero frizzante». Si definisce «un ragazzo di campagna» e non lo dice per fare lo snob. Anzi, sebbene il suo ultimo libro I frutti dimenticati (Marcos y Marcos, pagg. 202, euro 14,50) sia tra i 12 scelti per lo Strega, non gli piace essere definito scrittore. Perché se gli chiedete che lavoro fa, lui risponde: il pizzaiolo.

Cristiano Cavina, 35 anni, nato e vivente a Casola Valsenio, provincia di Ravenna, è cresciuto con la madre e i nonni materni in una casa popolare di viale Neri, tirando calci a un pallone sui campetti di terra battuta, sfrecciando con la bicicletta Turboberta, tra una recita natalizia e tante letture, di pirati, moschettieri e palombari.

Perché non scrittore?
«Io sono davvero pizzaiolo, mica per posa. Lavoro nel ristorante di mio zio, impasto, accendo il fuoco, inforno. Non voglio avere una carriera da scrittore. Non ho l’assillo di diventare famoso. Ho mantenuto un’altra vita, per fortuna».

Perché per fortuna?
«Perché quelli che pensano di essere scrittori poi, casomai, non hanno più storie da raccontare e allora fanno esercizi di stile e di scrittura. Io non ho l’obbligo di mettermi al tavolino per inventare trame e personaggi. Io vengo dalla dura scuola dei bar di provincia, uno dei pochi luoghi dove la gente usa ancora la voce per raccontare storie».

Però potrebbe vivere di scrittura?
«Per il primo libro mi hanno dato 1.500 euro. Per questo ho avuto 40mila euro d’anticipo. Ma non lo faccio per soldi».

Quante storie ha ancora da raccontare?
«Per ora ne ho scritte quattro. Un altro paio ce l’ho. Quando non ne avrò più, allora smetterò e farò solo quello che ho sempre fatto. Il pizzaiolo e mille altri lavoretti. Per molto tempo sono stato barista. Ho fatto anche il raccoglitore di frutta e il portalettere stagionale».

Il portalettere stagionale?
«Sì, d’estate, quando gli altri sono in ferie. Mia mamma è portalettere, mia nonna faceva la portalettere e il mio bisnonno è stato il primo portalettere di Casola. Anche mia cugina è portalettere e anche mio nonno era metà contadino e metà portalettere».

Però adesso è anche candidato al premio Strega, il più prestigioso riconoscimento letterario italiano. Contento?
«Sono andato a Benevento alla presentazione dei candidati con lo spirito del ragazzo di campagna in gita con il pranzo al sacco. Gli altri erano in camicia e cravatta, io in maglietta... ».

Però le farà piacere essere stato scelto...
«Sì, ma non mi monto la testa».

I suoi presentatori sono Ernesto Ferrero e Valeria Parrella. Suoi amici?
«Non li conosco di persona. Ferrero l’ho incrociato una volta alla Fiera di Torino nel 2003 quando è uscito il mio primo libro Alla grande. La Parrella non l’ho mai vista. Però li ringrazio molto di avermi apprezzato».

Scrittore no, narratore va bene?
«Meglio. Diciamo “raccontatore di storie”. Casola è un paesino di appena 2.875 abitanti, ma ha avuto tanti letterati. Era il paese di Alfredo Oriani, grande scrittore, dimenticato perché Mussolini lo mise tra i suoi preferiti. E del professor Giuseppe Pittano, l’autore del Dizionario dei sinonimi e contrari della Zanichelli. Era il figlio dell’oste anarchico analfabeta di Casola».

Questi personaggi sembrano usciti dai suoi libri. È anche la terra di Guareschi e di Fellini...
«Infatti. Per me Guareschi è uno dei più grandi narratori italiani. E Fellini con Amarcord ha colto in pieno l’archetipo del luogo. Qui è davvero come Peppone e don Camillo. Ora un po’ meno, ma quando ero piccolo noi figli di famiglia cattolica andavamo in slitta in un posto diverso da quello dei figli dei comunisti. Due bar, due cinema, tutto doppio».

La sua numerosa famiglia entra ed esce dai suoi libri che sono sempre vagamente autobiografici...
«Un nonno saragattiano (il mio primo voto l’ho dato al Psdi), una nonna monarchica che votava Dc, una mamma andreottiana, e lo zio Mario, il comunista di famiglia che era alto 1,40, aveva occhi azzurrissimi, aveva fatto il partigiano e si era preso una palla in pancia».

E lei?
«Io sono uno dei più grandi chierichetti della storia di Casola. Sono in equilibrio perfetto tra il socialismo e San Francesco. Conosco la Bibbia quasi a memoria ma lotto contro la burocrazia della Chiesa e mi piacerebbe che il Papa fosse solo il servo dei servi di Dio».

In «I frutti dimenticati» il protagonista diventa papà e ritrova il padre che non ha mai conosciuto. Quanta finzione e quanta realtà?
«Il figlio nato è vero. Il padre no. Non si è mai fatto vivo e non so chi sia».

La sua famiglia non le ha mai detto niente?
«Non ho mai chiesto a mia madre chi è. Chiederlo avrebbe sminuito la fatica che ha fatto per crescermi come ragazza madre».

Nel libro lei fa morire il padre che ha appena ritrovato. Pensa che il vero padre lo leggerà?
«Chissà. Mia zia, che sa chi è, mi ha detto che è vivo».

Lei si sente un frutto dimenticato?
«I maschi Cavina sono tutti frutti dimenticati. Piante non coltivabili e poco commerciabili».

A Casola fate ancora la festa in onore dei frutti dimenticati?
«Il terzo fine settimana di ottobre. Giuggiole, corbezzoli, pere volpine, sorbi, il prugnolo: si ritrovano i sapori spazzati via dal benessere. Qui c’è anche uno dei giardini officinali più grandi d’Europa: erba cipollina, maggiorana, lavanda. Mi sembra di essere cresciuto in un cassetto della biancheria».

Scuola?
«Ero bravissimo all’asilo. Poi sono incappato nella matematica, la mia bestia nera. A italiano andavo sempre fuori tema, ma con stile, e i prof apprezzavano. Mi sono diplomato all’Istituto tecnico a Imola. So usare macchine e utensili vari, so saldare, usare il tornio, stuccare, fare il gesso».

Università?
«Avrei voluto fare Lettere ma non ho mai studiato il latino. Con i risparmi ho fatto un anno di Dams a Bologna. Poi ho smesso e dai 20 ai 27 ho sempre lavorato. Pizze la sera e altri lavoretti di giorno».

E a 27?
«Mi ero stancato di sgobbare così tanto e avevo risparmiato abbastanza per fare qualche viaggetto e iscrivermi alla Scuola Holden di Baricco. Scrivevo già. Avevo fatto un giallo stile Stephen King e qualche altra cosa. Ma lì ho potuto coltivare le mie passioni: libri e cinema. Un’esperienza bellissima, ero uno studente da ultima fila, compagno di banco e del cuore di Pietro Grossi (l’autore di Pugni, Sellerio, in finale allo Strega nel 2006, ndr)».

Quali sono i «suoi» autori?
«Come uomo Eduardo Galeano. Come maestri John Fante e anche Goffredo Parise del Prete bello. Come lettore troppi da dire... Dumas, Hugo, Salgari, Scott Fitzgerald, Vonnegut... Leggo di tutto, anche I love shopping di Sophie Kinsella e Il diavolo veste Prada».

Frequentare la Scuola Holden l’ha aiutata a trovare un editore?
«È stato un caso. Marcos y Marcos ha risposto una settimana prima di Einaudi.

E sono rimasto con loro».

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