Quando alle sette meno dieci il 5 di giugno 1967 la radio scandì «lenzuolo rosso», la parola d’ordine, e la Guerra dei Sei Giorni cominciò, mi trovavo al kibbutz Neot Mordechai in Alta Galilea, il Libano a sinistra, il Golan siriano
a destra: ero una biondina di
sinistra che la famiglia aveva
spedito in Israele sperando
tornasse un po’ più saggia.
Nasser gridava ogni giorno la
sua promessa di distruzione,
ammassava truppe nel Sinai
cacciando le forze Onu dopo
aver chiuso il canale di Suez;
dalla Siria si levavano Mig in
volo sulle vigne in cui lavoravo
in costume da bagno; noi
volontari scavavamo trincee
nel kibbutz, imparavamo il
passodelleopardo sorreggendounvecchio
fucile. E mi sembrava ungioco.
Niente era più
lontano dell’idea della conquista
dalla testa dei membri del
kibbutz, dei cittadini di Kiriat
Shmona che avevano incerottato
le vetrine dei negozi per
evitare che le bombe scaraventassero
schegge taglienti.
Si aspettava, mentre il rombo
della minaccia di sterminio si
faceva più forte. Quando la
guerra scoppiò, oltre all’Egitto,
la Siria e la Giordania, anche Sudan,
Algeria, Irak, Mauritania,
Yemen, si unirono alla
compagnia.
Le sirene suonarono, mi vestii
ancora insaponata nella
doccia, avevo il compito di portare
i bambini nel rifugio, e lo
feci per sei giorni. Alla quarta
sirena già non correvo più,
eseguivo i miei compiti, nel rifugio
giocavamo e cantavamo.
Lungo la strada orlata di
eucalipti sul margine delle vigne,
passavano i carri armati
che si ammassavano al confine.
I soldati erano come me,
sessantottini, ragazzi, alcuni
invitavano per scherzo noi ragazze
che gli offrivamo da bere
«Vieni a Damasco?»; solo
uno mi fece un segnaccio con
l’indice per dire che lui voleva
andare a casa e non voleva la
mia acqua.
Quando Moshe Dayan,
ministro della Difesa (Rabin
era Capo di Stato maggiore),
parlò alla radio, chiesi
che cosa dicesse (allora non
sapevo l’ebraico) e qualcuno
del kibbutz, pacifista anche
lui, mi disse «Shtuiot», sciocchezze.
Invece, era l’annuncio
di una nuova epoca. Fino
al 4 di giugno avevamo ascoltato
alla radio l’annuncio dell’annichilimento
d’Israele, stavolta
sul serio; Nasser (e così
gli altri Paesi arabi, convinti
dal 1948 di poter distruggere
lo Stato ebraico, occidentale,
democratico) mentre le sue
strade si riempivano di caricature
antisemite e di canzoni
con il ritornello «sgozza sgozza», spiegò: «Intendiamo lanciare
un assalto generale a
Israele. Sarà guerra totale. Lo
scopo basilare è la distruzione
di Israele».
Nasser ammassò nel Sinai
900 carriarmati e130mila uomini,
mentre Levi Eshkol, il
premier israeliano, e Abba
Eban, ministro degli Esteri,
cercavano ogni via diplomatica
per bloccare la guerra.
Gli
americani intimarono di non
attaccare.Tirava aria di un secondo
Olocausto. Nasser convinse
anche re Hussein che
non vi erano dubbi: Israele sarebbe morta.
Contrariamente
alla lectio dell’insistente scuola
che vede nella guerra del
1967 un’aggressione israelianae un’indebita
appropriazione
di territori altrui, Israele
non ebbe altra scelta se non
l’azione preventiva con cui distrusse a terra
l’aviazione egiziana.
Gli arabi avrebbero attaccato
e distrutto, se Israele
non avesse agito. Michael
Oren, il più eminente studioso
della Guerra dei Sei Giorni, dimostra che
l’Egitto, la Giordania e la
Siria avevano preparato
dei piani di distruzione capillare
dello Stato d’Israele.
Amman aveva disegnato la deportazione
e l’eliminazione
della popolazionedi intere città
israeliane. E la presa di Gerusalemme,
da19anni inmano
giordana e chiusa nei luoghi
di fede a cristiani ed ebrei,
fu dovuta all’attacco che i giordani
alle dieci del 5 giugno
portarono a Gerusalemme
ovest. Questo, nonostante
Israele avesse chiesto direttamente
a re Hussein di restare
fuori dalla guerra. Anche la Siria
attaccò subito. Israele fu
costretta a combattere, anche
se gli americani erano
contrari e i francesi la tradirono:
il risultato di quella guerra
solitaria fu un allargamento
territoriale frutto di autodifesa.
E se oggi si suggerisce
che la Ybris israeliana spinse
a tenersi i territori, in realtà
essi furono restituiti ogni volta
che ve ne fu possibilità; la
pace con l’Egitto nel ’77 costò
il Sinai, con la Giordania nel
’94 l’Aravà.
Con gli accordi di Oslo, Israele
si ritirò nel ’95 da tutte le
città israeliane; e si sarebbe ritirata
da quasi tutto il West
Bank e persino da Gerusalemme
se Arafat non avesse
lanciato l’Intifada del terrore
suicida. Dal Libano, che aveva
occupato nel 1982, si ritirò
senza contropartite nel 2000.
Da Gaza nel 2005, unilateralmente.
L’atteggiamento del
mondo arabo invece è rimasto
quello della conferenza di
Khartum tenuta all’indomani
della guerra: no alla trattativa,
no all’accordo, no al riconoscimento
di Israele.
La Guerra dei Sei Giorni
non ha creato un conflitto,
che era già là dal 1948: il mito
dei «territori» e dell’«occupazione
» come causa scatenante
di tutti i mali, ma tutti dimenticano
il terrorismo e le
guerre precedenti, ignorano
volutamente che l’Urss giocò
pesantemente sulla guerra
dei Sei Giorni. Secondo il recente
studio di Isabella Ginor
e Gideon Remez, «i sovietici
avevano preparato uno sbarco sulle
spiagge di Israele e approntato
l’attacco di bombardieri
e di forze armate navali
nuclearizzate». Il loro obiettivo
era il reattore nucleare di
Dimona, e il mezzo era la provocazione
araba.
Dopo l’imprevista
vittoria di Israele, i sovietici
furono quelli che all’Onu
(scrive in un nuovo studio
lo storico Joel Fish) imposero
la condanna come condizione
per qualsiasi cessate il
fuoco. Da allora, le organizzazioni
legate ai partiti dei lavoratori
furono ipnotizzate da
una campagna che dura tutt’oggi
in maniera acritica e
pretestuosa per disegnare
Israele come aggressore e
l’America come un burattinaio.
In realtà l’Onu, combattuta,
votò la risoluzione 242
che chiedeva a Israele di ritirarsi
«da» e non «dai» territori
in cambio della sicurezza.
La Guerra dei Sei Giorni è
stata l’inizio della consapevolezza araba del
fatto che Israele
non poteva essere spazzata
via dalla mappa; è stata la definitiva
territorializzazione,
nel West Bank e a Gaza, dell’identità
palestinese che non
aveva mai avuto uno Stato
proprio; anche per loro è stata
un’opportunità storica; è
stato l’inizio della discussione
in Israele sulla importanza
della profondità strategica
del territorio, con la sinistra
che la dichiarava nulla, e la
destra che vi vedeva una indispensabile
dimensione di salvezza,
e della discussione fra
Pace adesso e Coloni.
Alcuni vedono in questa
guerra il momento in cui il fallimento
del panarabismo arabo
aprì la strada all’islamismo,
altri lo identificano nella
rivoluzione khomeinista e poi
nella sconfitta russa in Afghanistan.
Più di tutto, fu la fine
del vissuto ebraico legato all’ansia
per un incombente
sterminio.QuandotornaiaFirenze
all’Università dopo la
guerra, i miei compagni studenti
mi guardavano in modo
diverso: non ero più la «loro»
ebrea simbolo della lotta contro
il nazifascismo, l’ebrea «ricurva
» e sofferente della diaspora
che piaceva a Natalia
Ginzburg quanto le dispiacevano
i «sabre» forti e sfrontati.
Ci misi annia capire che ciò era accaduto sotto ai miei occhi.
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