"Io, reazionario e antitaliano, credo ancora nell'Occidente"

Lo scrittore manlio Cancogni, 94 anni, fa i conti con il suo lavoro, il Paese, i colleghi: "Vogliono tutto e subito, poi si lamentano". L'Europa? "Non è in declino, le cose importanti accadono qui". Vizi atavici: "Aveva ragione Mussolini, governare l'Italia è inutile". Comodità: "Inutile fermare il progresso, alla gente va bene così"

"Io, reazionario e antitaliano, credo ancora nell'Occidente"

Manlio Cancogni, classe 1916, dopo una carriera gior­nalistica e lettera­ria di primissimo piano, riporta in li­breria Parlami, dimmi qualcosa (Elliot), da molti considerato il suo capolavoro, edito in origine da Fel­trinelli nel 1962. È tra i cinque fina­­listi del premio Pen Club.

Cancogni, si ricorda? L’anno scorso di questi tempi, a Mari­na di Pietrasanta, pochi giorni dopo il suo 93° compleanno...
«Certo che mi ricordo.Un’inter­vista piena di sottile nostalgia. Par­lammo di giornalismo d’inchie­sta, che avrebbe molto da impara­­re dalla narrativa, di riviste lettera­rie scomparse che si recensivano a vicenda i racconti pubblicati, co­sa oggi impossibile, e poi di religio­ne, ché ancora adesso il Vaticano riempie le piazze ma non le chie­se, di giovani cronisti, di fritture di parazzi e zuppa di arselle».

Quando ci si avvicina ai cent’an­ni e si è un classico ci si deve aspettare interviste a cadenza annuale.
«Infatti eccoci qui. Tanto più che Elliot ha appena ristampato il mio romanzo d’amore coniugale Parlami, dimmi qualcosa , fuori commercio dal 1972 e in assoluto, tra i miei, quello che amo di più. L’anno scorso,invece,era appena stato pubblicato La sorpresa , rac­colta di miei racconti dal 1936 al 1993».

Come sono andati gli ultimi do­dici mesi?
«Mi sento abbastanza bene. Prendo troppe medicine, ma ne va della vita, come direbbe Don Abbondio, o almeno cosi mi han­­no fatto credere i medici, incuran­ti che tutta questa chimica alteri il gusto e che, alla fin fine, sia solo ve­leno. Per il resto, leggo».

È riuscito a finireil Doctor Fau­stus di Thomas Mann, iniziato a luglio scorso?
«Gran libro, ma faticoso. Il desti­no del protagonista Adrian Leve­rkühn ha una sua grandezza peno­sa, simile a quella di Nietzsche, a cui Mann si è ispirato. Pensavo proprio l’altro giorno come il dialo­go tra Leverkühn­e il diavolo ricor­di da vicino quello di Ivan Karama­zov con lo stesso terribile interlo­cutore. Ma anche il curato di Ber­nanos, messo dal suo creatore nel­la stessa situazione, non scherza affatto quanto a potenza lettera­ria. In quelle poche pagine l’auto­re dei Grandi cimiteri sotto la luna riesce ad avere una forza persuasi­va che manca a Mann e Dostoe­vskij. Ti fa sentire letteralmente il diavolo addosso e le tenebre intor­no. Anche Un crimine è un altro gran libro di Bernanos, enigmati­co e irrisolto».

Fuor dalla narrativa che legge?
«Il terzo volume delle memorie di Churchill, dove racconta della battaglia d’Inghilterra. Mai come in quel momento, scrive, così tanti dovettero molto a così pochi. Cioè a quei piloti di caccia inglesi che re­spinsero i tedeschi di Goering, convinto che il “leone marino”te­d­esco sarebbe sbarcato senza diffi­coltà sul suolo britannico. Poi ven­ne la nostra campagna di Grecia. Si discute ancora se Mussolini era consapevole della nostra totale inefficienza militare. Semplice: Mussolini era uno che desiderava ardentemente essere ingannato a proposito. Lo so perché ero in Gre­cia nel 51˚ battaglione fanteria, di­visione Cacciatori delle Alpi, quel­li che portavano la cravatta rossa e che ai superiori rispondevano con “Obbedisco!” anziché “Coman­di”. Tra l’altro, mio nonno Cesare Cancogni era garibaldino».

Che dire, invece, dell’ultimo an­no a livello politico-culturale? «Spero che si arrivi presto, nel PdL, alla spaccatura con Fini. Lui la cerca attivamente, è così chiaro. Ma non so quanto di concreto ci sia sotto la sua immagine di rispet­tabilità. Non parlo dell’opposizio­ne perché non si capisce nemme­no chi la rappresenti. Penso che l’Italia non abbia troppo bisogno di essere governata, va avanti da sé. Lo diceva anche Mussolini: go­vernare gli italiani non è difficile, è inutile. Non è una cattiva idea. Noi italiani ce la siamo sempre cavata realizzando il più basso livello di autogoverno. E non è il caso di te­mere troppo, nemmeno artistica­mente, il cosiddetto declino del­l’Occidente nei confronti del­l’Asia. Se ne parla da un secolo, ma le cose importanti mi pare che ac­cadono ancora qui nel Vecchio Mondo».

In Parlami, dimmi qualcosa si legge a un certo punto: «... diedi uno sguardo al soffitto, così biancoe inutile,comela mia co­scienza...». Ma tutto il libro è im­pietoso e lucidissimo. Oggi, in­vece, nonsi vede molta coscien­za in giro, tra gli scrittori.
«Vero. Questo perché più au­mentano le esperienze esistenzia­li, più si abbassa l’attenzione della coscienza, che si disperde in mille cose che perdono di significato al­­l’istante. La letteratura ne risente. Checché se ne dica del romanzo ombelicale, non vedo scrittori che si dedicano davvero, secondo una tradizione classica,all’introspezio­ne. Vogliono tutto e subito, come nel 1968, e anche nella scrittura: che prendano tutto, allora. Ma che poi non si suicidino. Ci rispar­mino almeno questo rimorso».

«Sono un reazionario», ha scrit­to nella postfazione al suo ro­manzo, dovehaanchedichiara­to che ai Mondiali avrebbe tifa­to contro l’Italia.
«Lo sono sempre stato, reaziona­rio, e fin da bambino. Orazi e Cu­riazi? Curiazi. Romolo e Remo? Te­nevo per Remo. Pirro e i romani? Pirro. Annibale è stato l’eroe della mia infanzia, Radetzky quello del mio Risorgimento. L’ultima Guer­ra, tifavo per gli inglesi. Ad ogni mo­do, sono contento che la Spagna abbia battuto l’Olanda, che mi sta davvero antipatica. Povero Lippi, comunque. Mi dicono che qui a Viareggio l’abbiano preso a male parole per strada. Lui se ne infischia, ha preso il largo con la sua barca».

Ma, come lei scrive, essere rea­zionari serve davvero a ferma­re la catastrofica corsa del pro­gresso?
«No. Soprattutto io non voglio fermare alcunché o invocare un ar­resto delle cose. Le persone sono abbastanza contente pur nella cri­si­e molte sentono di vivere nel mi­gliore dei mondi possibili, anche perché le comodità che porta il progresso sono pure dei grandi sonniferi che non ci fanno vedere la meta finale, questa catastrofica di certo».

Nei capitoli parigini del suo ro­manzo c’è una feroce parodia dei movimenti letterari. Oggi come la vede?
«Finiti l’esistenzialismo,lo scon­solante spettacolo del 1968 con il suo inevitabile strascico di terrori­smo- che senza la tv non ci sareb­be stato, dato che qualsiasi scioc­co che finiva sul piccolo schermo si sentiva un eroe- , finiti i beatnik, lo strutturalismo e il resto, vedo che non sorge più nulla.

Meglio co­sì. È davvero finita la narcosi dei movimenti e trovo una fortuna questa impossibilità degli scrittori di fare coesione. Ci sono le condi­zioni ideali perché ciascuno sia un individuo pensante e a se stante».

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