Stavolta, perlomeno dove sono stato io, non ci sono state le solite scene di delirio e di rabbia. Nessuno, perlomeno dove sono stato io, ha gridato è una vergogna. Le file davanti agli uffici delle compagnie aeree, agli aeroporti di Lisbona e Madrid e alle stazioni ferroviarie di Madrid e Barcellona erano file composte, educate, un po' sorprese da questo bizzarro imprevisto.
Un vulcano, qualcosa che evoca immagini preistoriche, legate alle origini stesse della Terra, adesso viola il nostro rispettabile e moderno spazio aereo, la natura interferisce con i nostri affari. Le facce della gente sono perlopiù pensose, nonostante la stanchezza e il disagio: oggi un vulcano mette ko tutti i voli, ma se domani un altro accidente mettesse fuori uso, che so, tutti i computer?
La faccia dice che la natura non è il nostro interfaccia. La faccia dice che siamo piccoli e deboli, ossia che siamo quello che siamo. Senza piangerci troppo addosso.
Io per esempio mi sono trovato sabato sera a Lisbona, col mio volo di rientro a Milano cancellato mentre gentilissimi impiegati della compagnia mi comunicavano la prima data disponibile per il rientro: giovedì 22 aprile.
Una settimana lavorativa, chi se la può mangiare così? Be cè chi se lo può permettere, per esempio i quattro allegri milanesi davanti a me: tanto l'albergo lo paga la compagnia, no? E allora perché tornare giovedì? Facciamo venerdì. Beati loro.
Io invece devo rientrare al più presto. L'impiegato mi dice che il solo volo in partenza l'indomani (domenica) è su Madrid, alle 7 del mattino. Accetto: è un pezzo di strada in meno. La scelta in realtà ha i suoi pro ma anche i suoi contro: a Madrid ci sono più voli, è vero, ma anche molta più gente.
Be, si vedrà. Il dado è tratto. La mattina dopo eccomi a Madrid. Che fare? Cerchiamoci un altro volo. Ma l'Italia ha chiuso tutti gli aeroporti, e così Francia, Svizzera, Germania: terre a portata di treno, pensiamo ingenuamente. Così, dopo aver collezionato una quantità di no e sorrisi di compatimento, io e altri compagni di avventura decidiamo di raggiungere la stazione Atocha e salire su un treno per Barcellona, sia un Alta velocità (Ave) o un carro bestiame.
Ma la stazione è nel caos: mezz'ora solo per riuscire a prendere il numerino alla biglietteria. Dopo aver capito che di carri bestiame per Barcellona non ce ne sono un enorme display ci informa che per tutto il giorno non sarà possibile trovare un solo posto per Barcellona.
A questo punto, mentre siedo sconsolato a un caffè, ecco che mi si accende un fiammifero in testa. Chiamo un amico di Barcellona e gli chiedo se può acquistare lui online un biglietto (com'è noto, ne esiste una quota acquistabile solo via web), e lui fa molto meglio: non solo mi compra il biglietto per quella sera alle 19 (200 euro: e poi mi lamento dei costi dei treni italiani), ma mi trova il passaggio per l'Italia. Suo suocero fa l'autotrasportatore, e proprio quella sera, domenica 18 aprile, alle 22,30, un suo autista deve partire per portare un carico in Friuli.
Così, non appena il treno velocissimo mi deposita alla stazione Barcelona Sants, il mio amico è lì per portarmi fuori città dove ad attendermi c'è Fabian, il camionista: trentenne, slim, occhiali da sole, romeno. Fabian con il suo camion. Meglio: con la sua autocisterna.
Fabian è gentile ma è proprio Fabian. Radio a tutto volume, ricerca continua delle stazioni più accattivanti, Fabian è uno della notte, voglio dire un frequentatore della notte, ma non al modo dei nottambuli cittadini che se ne vanno, fino a trascinarsi, da un locale all'altro. Lui appartiene a un altro tipo di nottambuli.
La conversazione tra noi, potere immaginarvela: io non parlo lo spagnolo, lui oltre allo spagnolo conosce solo il romeno. Le nostre conversazioni sono di questo tipo. Io: «Tu quieres Barcelona Futbol?» Lui: «Ah-ha, muy bien». Io: «Leo Messi, gran campeon». Lui: «Ah-ha. A mi me gusta Leo Messi». Oppure. Io: «Te gusta un café?». Lui: «No, a mi non me gusta». Oppure. Io: «Quando tu piensas de fermarte un poquito». Lui: «Ah?» (Capisco che forse non stavo parlando in spagnolo). Io: «Yo tengo, ehm, un problema idraulico». Lui: «Ah, ah. Problema idraulico». Ma all'autogrill non si ferma, perciò temo di non essermi fatto capire.
Passiamo così da Barcellona a Girona, poi arriviamo al confine e penetriamo in Francia. Sono quasi le due. Nomi meravigliosi ci accompagnano: Perpignan, Rossillon, Narbonne. Il cielo è sereno, fa fresco, a un certo punto c'è perfino un incendio, piccolo ma furibondo, ai lati della strada. A Montpellier ci fermiamo in un autogrill, in un punto dove solitamente non vado mai. Ci sono due cuccette, dormiamo un paio d'ore.
Si riparte, è ancora notte. Le voci spagnole alla radio sono state sostituite da voci francesi. La musica è meno invadente, più intellettuale. Si parla molto del blocco dei voli, la raccomandazione è di mettersi il cuore in pace. La loro Isoradio è molto meglio della nostra: le notizie trasmesse riguardano solo il pezzo di Francia che c'interessa.
Sorge il primo sole sul Rodano. Fabian ha la stessa faccia triste di frequentatore solitario della notte. E quando il sole è già alto e l'Italia è in vista, e la radio è già italiana (caciarona come quella spagnola), gli chiedo se è solo o ha una donna. Lui, senza girarsi verso di me, dice che la vita che fa gli piace, che guadagna bene, ma che non c'è la possibilità di pensare a farsi una vita. Nella sua voce non c'è rimpianto, ma solo una tristezza che anch'io conosco, anche se faccio una vita diversa dalla sua.
E mentre ci salutiamo a Ventimiglia, dove per legge lui deve stare fermo otto ore all'autoporto, e io prendo un taxi verso la stazione ferroviaria, io penso a questa nube, che ci ha reso tutti più fragili ma anche più simili.
I disagi sono tanti, però il viaggiare in queste condizioni ci fa incontrare di più tra noi, ci aiuta a riconoscerci meglio per quello che siamo.