Benito Mussolini lo fece con Ida Dalser. Gianfranco Fini lo ha fatto con Tullia Vivante. Di mezzo non c’erano, in questo caso, né un matrimonio segreto né un figlio illegittimo. Però la tecnica rimane la stessa. Una pazza che bisognava cacciare dal partito, da Alleanza nazionale. Non per farla rinchiudere e morire nel manicomio di San Clemente, che poi sarebbe vicino a casa sua, visto che Tullia Vivante abita a Venezia, tra piazza San Marco e l’Accademia. Ma da condannare alla morte civile, quello sì.
Una povera matta. È precisamente ciò che Fini dichiarò al Gazzettino e alla Nuova Venezia: «Bisogna avere compassione. Gli amici mi hanno spiegato che si tratta di una persona che non è in possesso di equilibrio mentale. Un caso umano, più che altro. Non intendo infierire su chi non ha l’equilibrio». Tullia Vivante aveva 62 anni. Oggi che sta per compierne 75 mantiene intatte, come allora, le sue facoltà psichiche e quando sente il presidente della Camera che parla di giustizia le ribolle il sangue nelle vene. Idem quando lo vede rendere omaggio alle vittime dell’Olocausto. Perché lei, israelita per parte di padre, fu estromessa da An in quanto «ebrea, troia e stupida oca», così disse un dirigente del partito, uno dei fedelissimi di Fini, durante una riunione nella sede in riviera Magellano 9, a Mestre. Fece anche di più, questo signore, e c’è una testimonianza scritta in proposito: sul ferry-boat tra l’isola di Pellestrina e il Lido, reduce da un incontro politico a San Pietro in Volta, spiegò a una militante che «stava preparando per la signora Vivante, ebrea, una saponetta con incisi i nomi dei tristemente noti campi di concentramento tedeschi».
Tullia Vivante s’indignò, protestò, querelò. Non è successo niente. «La denuncia per diffamazione che presentai alla stazione dei carabinieri di San Marco fu archiviata dalla Procura della Repubblica di Venezia. Sono proprio curiosa di vedere se verrà archiviata dalla Procura di Roma anche la denuncia per truffa aggravata presentata contro Fini per lo scandalo della casa di Montecarlo. Se tanto mi dà tanto...».
La «stupida oca» era, ed è, tutt’altro che stupida. Se lo fosse, il primo stupido sarebbe proprio Fini, che il 22 gennaio 1994 la accolse come delegata all’assemblea costituente di Alleanza nazionale e nel marzo successivo la candidò alle elezioni politiche per il Senato nel collegio di Chioggia-Mirano. E stupidi sarebbero i quasi 12.000 aennini che le diedero il loro voto. E più stupidi ancora gli iscritti veneziani che in un sondaggio Diacron la indicarono al primo posto nel gradimento elettorale in An.
Pare anche piuttosto improbabile che il presidente degli Stati Uniti il 7 gennaio 2005 abbia vergato un biglietto - l’ho fra le mani - in cui invitava la signora veneziana alla Casa Bianca per il successivo 20 gennaio in occasione del discorso d’apertura del suo secondo mandato («You are cordially invited to our inauguration!»), e poi abbia scritto di proprio pugno anche l’indirizzo sulla busta e appiccicato un’etichetta adesiva che recava battuto a macchina «George W. Bush - Washington DC - USA», se la destinataria fosse stata soltanto una «stupida oca».
Come presidente del circolo culturale Margaret Thatcher, carica che ricopre tuttora, prima di ricevere lettere autografe dalla stessa Thatcher e da statisti di mezzo mondo, la Vivante era diventata la pasionaria del manifesto. Ne ha fatti affiggere a decine, sui muri di Venezia, tutti sormontati dal Leone di San Marco con la spada in pugno, la coda alzata e la zampa sul libro chiuso, iconografia che nella tradizione popolare corrisponde alla condizione di guerra della Serenissima: contro la magistratura che aveva alloggiato in una lussuosa villa il criminale Felice Maniero, boss pentito della mala del Brenta, accusato di sette omicidi; contro il ponte di Calatrava; contro il sindaco Massimo Cacciari che lasciava la città in balia dei 30.000 colombi e delle loro 75 tonnellate di guano depositate ogni anno sui monumenti; contro la gestione fallimentare del casinò municipale. Ma anche contro l’insabbiamento dello scandalo Mitrokhin, contro Scalfaro, contro «Castro l’affamatore» ricevuto da «Prodi ridens», contro i crimini del comunismo. Troppa visibilità. L’hanno fatta fuori.
Era questo che cercava? Visibilità?
«Detto onestamente: mai avuto bisogno di farmi notare. Adesso mi vede vecchia, ma da giovane sono stata indossatrice e attrice. Ho recitato con Emma Gramatica in Tra vestiti che ballano di Rosso di San Secondo. Agli albori della televisione fui scritturata dalla Rai per gli sceneggiati Don Pasquale, Il sogno di un valzer, Werther, Musica in vacanza, Il revisore, L’impazienza del capitano Tic, Wunder bar. Erminio Macario m’avrebbe voluto nella sua rivista, ma mio padre, che era un tipo all’antica, me lo impedì. Me ne magnavo diese de Carfagne. Infatti feci colpo sul più bel maschio di Milano».
Chi?
«Il mio povero marito, Sandro Failoni, nipote del direttore d’orchestra Sergio Failoni, lo scopritore di Maria Callas, che aveva assunto come bambinaia a New York quando lui si esibiva al Metropolitan; era il sostituto di Arturo Toscanini alla Scala, morì stroncato da un aneurisma sul podio mentre dirigeva un’opera di Richard Wagner. Abbiamo avuto due figlie: Alessandra, vicequestore a Roma, e Ginevra, che abita a Siena e insegna in un’università statunitense».
Quindi esclude d’aver sgomitato dentro Alleanza nazionale per farsi strada?
«Capisco che lei non sappia nulla dei Vivante, mi permetta di chiarirle un po’ le idee. I miei antenati Jacob, Lazaro e Vita ebbero in pagamento l’abbazia di San Zeno a Verona per aver approvvigionato l’armata di Napoleone. Giuseppe Giacomo, convertitosi al cristianesimo, nel 1796 aveva commissionato allo scultore Antonio Canova la celeberrima Ebe oggi custodita nella Nationalgalerie di Berlino. I Vivante divennero proprietari della Banca austriaca di Trieste e furono tra i fondatori delle Generali. A Venezia disponevano di una flotta formata da 17 navi che solcavano il mar Mediterraneo e l’oceano Atlantico. Mio padre Mario, pilota, era amico del Duca d’Aosta e di Gabriele D’Annunzio. Partecipò col Vate all’impresa di Fiume. Negli anni Venti fu federale di Trieste. Fondò il Venezia football club. Nel novembre del 1953 la qui presente era in piazza a protestare quando il Governo militare alleato aprì il fuoco sui giovani che chiedevano l’unione di Trieste all’Italia, uccidendone sei. Le pare che abbia bisogno di pubblicità?».
Ma i Vivante sono triestini o veneziani?
«Di Corfù. Per temperamento io penso di essere la reincarnazione di Rachele Vivante, che nel 1776, appena diciassettenne, scappò di casa, si fece battezzare e sposò il conte Spiridione Bulgari per non doversi maritare col cugino Menachem, come avrebbe voluto suo padre. Ma ho preso molto anche da mio papà, che nel 1920 si vide infliggere dal comandante D’Annunzio tre giorni di arresti semplici perché aveva tolto un bullone a un aereo: voleva impedirne il decollo per una disputa d’onore. Considerato “cavaliere di tutti gli ideali”, si batté anche in diversi duelli».
Avete patito le persecuzioni razziali?
«Mio fratello Guido, primo di cinque figli, finì nel lager di Beniaminów, in Polonia, con Giovannino Guareschi. Nostro padre riuscì a fuggire e ad arruolarsi con gli americani. Io frequentavo le elementari dalle monache di Notre Dame de Sion. A Natale avrei dovuto recitare Noël in francese ma suor Maria Bernardina me lo impedì perché ero mezza ebrea. In via Tigor i ragazzi mi prendevano a sassate per lo stesso motivo. Appena sentivamo un drappello di nazisti in marcia, il cuore ci saliva in gola: ecco, vengono a prenderci, pensavamo. I vicini di casa ci denunciarono tre volte. Immagini che cosa avrebbe fatto Joseph Mengele a me e a mia sorella Gianna, gemelle omozigoti. Ancor oggi, se un controllore mi si avvicina mentre sono immersa nella lettura del giornale sul vaporetto, ho uno sguizzo di paura incontrollabile».
Però Sandro Romanelli, presidente della Comunità ebraica di Venezia, sostiene che il suo nome non compare nei registri.
«Nel 1942 figuravo nell’“Elenco Misti. Rubrica B” all’anagrafe della razza presso la prefettura di Trieste, numero 2118 (mostra la fotocopia, ndr), e tanto mi basta. Il fatto di non frequentare la sinagoga non mi ha impedito, quando abitavo a Roma, di mandare le mie figlie alla scuola ebraica di lungotevere Sanzio e di regalare alla Comunità israelitica di Venezia 150 milioni di lire per il restauro dell’antico cimitero ebraico del Lido».
Con questi trascorsi, non le ripugnava aderire a un partito nato dalle ceneri del Msi, che s’ispirava al fascismo?
«Ha ragione. Ma la guerra civile non può continuare all’infinito. Io nasco einaudiana nel Pli. Rappresento la destra storica a Venezia, sono una seguace di Edmund Burke, il Cicerone britannico. Entrai in An con Domenico Fisichella e molti altri che non erano mai stati fascisti. Pensavo che si potesse chiudere per il bene del Paese una brutta pagina di storia».
E invece che cosa accadde?
«Alleanza nazionale, dopo tutto il lavoro che avevo svolto, mi escluse sia dall’esecutivo provinciale che dalle liste per le elezioni comunali. Nessuna spiegazione. Dopodiché ricevetti per posta una lettera anonima in cui si diceva che un dirigente di An mi aveva definito “ebrea, troia e stupida oca”. Passi per ebrea: è vero a metà. Passi per troia: l’occasione fa l’uomo ladro, e talvolta anche la donna. Ma stupida oca proprio no! Deve ancora nascere quello che dà impunemente della stupida oca a Tullia Vivante. Tappezzai di manifesti tutta Venezia».
Ma lei va a fidarsi delle lettere anonime?
«No di certo, e infatti non presentai denuncia. Però tenga presente che nel frattempo mi avevano cacciata senza alcuna motivazione. Quand’ecco mi arrivò per posta un’altra lettera firmata (me la esibisce, ndr), nella quale la signora M.S. mi informava sdegnata che quello stesso dirigente aveva manifestato ad alta voce, su un mezzo di trasporto pubblico, l’intenzione di prepararmi una saponetta con impressi sopra i nomi dei campi di sterminio nazisti».
Ha incontrato questa signora?
«Certo, è una giovane donna che abita al Lido, mamma di una bimba. È pronta a testimoniare. C’è anche gente buona in giro, sa? Ma avevano ragione gli amici ebrei che mi rimproveravano: “Tullia, come puoi fidarti? Non ti ricordi che quelli lì erano gli stessi che ci portavano ai treni diretti verso le camere a gas?”. Era proprio vero. La nuova destra non è mai nata. Fascisti e comunisti non diventano mai ex. Le loro radici sono di sinistra. Tant’è vero che oggi Fini è tornato alla casa madre. Mi sono illusa di poter aggregare un movimento politico-spirituale che difendesse i valori del conservatorismo, e cioè l’etica dell’aristocrazia, che è l’onore, l’etica del cristianesimo, che è la carità, e l’etica del movimento operaio, che è la solidarietà».
Invece di denunciare Fini, non poteva prima chiedergli conto della malefatte dei suoi ex camerati veneziani?
«Scusi, eh, ma le pare che mi metto a discutere con un signore che mi ha dato della pazza sui giornali? Abbia pazienza! Un vecchio missino, un fiscalista che si chiama Mario Manzelle, mi ha detto: “Con Giorgio Almirante non sarebbe mai successo. Ti avrebbe convocata a Roma per capire chi ti aveva insultato e perché”. Io scrissi alla senatrice Maria Ida Germontani, coordinatrice nazionale delle politiche femminili di An. Neanche mi rispose. Ora, presso tutte le culture, dai Bantu ai Maori, ci sono i saggi che governano e i giovani che combattono. Si vede che Fini è un gradino sotto i Bantu: non ha mai insegnato ai suoi scagnozzi il rispetto per i saggi. Infatti è stato il primo a darmi della vecchia pazza. I sovietici facevano lo stesso: ospedali psichiatrici e gulag nella Kolyma. Gliel’ho detto che è un comunista ridipinto».
Un contatto diretto con Fini l’ha avuto?
«Certo che l’ho avuto. Andai a Roma con l’ingegner Pino Miozzi, figlio del famoso Eugenio Miozzi, progettista del ponte degli Scalzi e del ponte della Libertà che collega Venezia alla terraferma. Volevamo presentargli un progetto per la città messo a punto, in anni di lavoro, da fior di docenti universitari, ingegneri e studiosi, come Piero Pedrocco, Lino Natale Pavan, Alberto Pellegrinotti, Cristiano Nalesso, impegnati a risolvere tutte le emergenze, dal tapis roulant sotto il Canal Grande alla bonifica dell’area chimica di Porto Marghera. Se fosse stato commissionato alla Nomisma di Romano Prodi, lo studio sarebbe costato 10 miliardi di lire. Il circolo Thatcher elaborò Progetto Venezia gratis. Fini ci ricevette nel suo ufficio di via della Scrofa. Afferrò il malloppo, senza nemmeno aprirlo, lo appoggiò su una pila di libri e ci congedò con un “grazie, arrivederci”. Esattamente la stessa cosa che aveva fatto Mussolini a Palazzo Venezia quando mio fratello Guido, ufficiale di Marina che sul finire degli anni Trenta era stato mandato come spia negli Usa, scrisse in un rapporto che gli americani potevano riconvertire le fabbriche in una settimana e costruirsi tutti i carrarmati che volevano. Il Duce neppure lo sfogliò. Se lo avesse letto, non sarebbe mai entrato in guerra, perché l’avevamo già persa in partenza».
Che cosa pensa del presidente della Camera?
«Uno che si lascia infinocchiare dal fratello di Elisabetta Tulliani un genio non dev’essere. Gli dai in mano l’Italia, a uno così? Leggo la cupidigia di potere in ogni suo gesto».
E della conversione che lo ha portato in pellegrinaggio ad Auschwitz e al memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme, che cosa pensa?
«Sceneggiate per accreditarsi come sincero democratico e antifascista. Il Fini vero è quello che caccia un’ebrea dal partito».
Pensa che Fini sosterrà il governo come va dicendo oppure che continuerà in tutti i modi a cercare di sabotarlo?
«Non può essere fedele al governo perché è infedele di natura.
(513. Continua)
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