Io sopravvissuto alla potenza del dio-fuoco

Uno scrittore racconta il suo viaggio nel cuore del cratere islandese che ha paralizzato un continente

Io sopravvissuto alla potenza del dio-fuoco

di Alessio Grosso

Vento, cenere, gas, ghiaccio, neve, ancora vento. Questa è l'Islanda, questa è la terra dove, se non ci vieni, non potrai mai raccontare di aver incontrato la natura scatenata, né mai capire quanto possa risultare perfida e crudele.
Qui si può restare all'improvviso prigionieri della nebbia, imbavagliati dal vento, inghiottiti da vulcani travestiti da ghiacciai, qui si può soffrire una solitudine lunare, qui si intuisce che sul pianeta esistono ancora spazi sconfinati dove l'uomo non è che una comparsa, dove ci si rende conto della nostra totale impotenza di fronte alla furia degli elementi. Non riesci a godertela la ring road, l'unica vera strada che ti consente di ammirare questo affascinante territorio, l'impressione è che dietro ogni curva possa accadere qualcosa, che un'improvvisa jökulhlaup, un'onda di ghiacciaio, possa cancellare di colpo la tua esistenza.
L'ho vista spesso agitata quest'isola, talmente agitata da farla diventare protagonista di uno dei miei romanzi (Apocalisse Bianca, Mursia Editore); la catastrofe l'ho immaginata, l'ho romanzata, ma alla fine era rimasta chiusa nel libro, non avrei mai pensato che uno dei suoi gioielli minori, l'Eyjafjallajokull, potesse scatenarsi a tal punto da influenzare le vite di milioni di persone in tutta Europa.
Sì, perché qui i vulcani fremono: c'è il Laki, c'è il Grimsvotn, c'è l'Hekla, c'è il Katla: un piccolo esercito fumante che ha fatto parlare di sé nel corso dei secoli, ma finché non lo vedi fumante con i tuoi occhi, finché non vedi le strade spazzate via dalla furia delle acque, finché non vedi i cameramen delle tv di tutto il mondo al suo capezzale e gli aeroporti chiusi a migliaia di chilometri di distanza, non ci credi ancora.
Ti avvicini, anche più di quanto non potresti, perché è inevitabile incrociarne lo sguardo, perché quella danza di lapilli di quel rosso sanguigno, ti arreca nell'anima un profondo turbamento, uno scoppio sfrenato di passione. E il ghiaccio reagisce e schizza alto nel cielo come un geyser e la nuvola sale, sembra volare verso il tetto della troposfera, poi il vento ne frena la salita e sembra spingertela addosso, fino a farti dubitare che il punto di osservazione che hai scelto sia davvero sicuro. La annusi quella cenere, una delle essenze più autentiche che la natura potesse partorire e ne resti quasi totalmente inebriato: è una fragranza sopraffina di zolfo. Il vento si placa per un istante, la nube riprende la sua corsa verso l'alto.
È un pyrocumulo impressionante, dal quale cadono a tratti anche fiocchi di neve. Altra gente ammira, in silenzio contemplativo. Più a valle le ruspe sono in azione per preservare per quanto possibile il territorio. Il frastuono dei loro motori è soffocato di tanto in tanto dai prolungati borbottii del vulcano e dal crollo improvviso di pezzi di ghiaccio, divorati dalla lava, che li lavora ai fianchi e avanza.
Ad un tratto sembra che voglia riprendere fiato: le bocche eruttive si mostrano attive a intervalli di pochi secondi l'una dall'altra, poi tornano a macinare lava veloci come una locomotiva a vapore lanciata a tutta velocità. Il tramonto regala altri momenti di pura poesia: il cielo si colora di un rosso vermiglio di accecante bellezza, uno di quelli che disegnavi a scuola da bambino e che probabilmente hai visto due o tre volte nella vita.
Cala la notte: molti si dileguano lungo l'unico sentiero giudicato sicuro, altri restano, io con loro. Ora lo spettacolo è ancora più avvicinante: il bianco del ghiaccio e il rosso della lava, una piccola esplosione isolata. Un geologo americano a pochi passi da me, spiega che il magma è basaltico, non è cattivo, fosse stato andesitico, cioè decisamente più denso, allora le conseguenze sarebbero state catastrofiche.
L'uomo sussurra, quasi in segno di rispetto verso l'Eyjafjallajokull. Nonostante il calore che giunge dal vulcano, ora fa davvero freddo e la nevicata si infittisce. Nel cuore della notte il vento ulula selvaggiamente, tanto da costringerti a restare chiuso in tenda. L'alba ci riconsegna un vulcano in piena attività: sospinta dalle raffiche, la nube procede spedita verso sud-est, l'Europa è avvisata.
Stamattina siamo in pochi ad osservare lo spettacolo, la Protezione civile islandese ci lancia occhiate poco rassicuranti. C'è una colata di lava che potrebbe far fondere rapidamente un costone di ghiaccio, con conseguenze prevedibili e fatali per i ficcanaso. Meglio togliere il disturbo.
Mi allontano, ma la nube è sempre lì, visibile a decine di chilometri di distanza, anzi appare anche più maestosa.

Sulla costa, verso Husavik, mi accoglie una bufera di neve, la stessa che ha tenuto lontano dal nord dell'isola tutta la cenere del vulcano.
Le navi dei pescatori sono tutte lì, ancorate nel porto. A loro del vulcano importa poco, stanno aspettando che il mare si plachi per tornare al lavoro. Anche questa è Islanda.

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