Irak, vigilia del voto Pattuglia italiana attaccata a Nassirya

Nessun ferito tra i nostri militari. Per il referendum urne aperte in anticipo nelle carceri e negli ospedali

Gian Micalessin

Chiuse le frontiere. Chiuse le strade interprovinciali. Chiuse al traffico, da stasera, le vie cittadine. Barricato in se stesso e con i seggi difesi da barriere di calcestruzzo l’Irak si prepara al referendum di domani. Ma è una vigilia piena d’insidie. Lo sanno bene i militari della pattuglia italiana attaccata nel primo pomeriggio di ieri ad Al Rifay, 60 chilometri a Nord del comando di Nassirya. Un agguato a colpi di lanciarazzi anticarro e di bombe a mano respinto senza conseguenze dai soldati della Task Force Alfa ripiegati poi verso una zona più sicura. L’agguato è avvenuto durante l’attività di controllo del territorio e di distribuzione d’aiuti umanitari nell’area di Al Rifay.
Da sì o dal no alla nuova Costituzione nel referendum di domani dipendono i tempi della transizione politica. Se due terzi dei sunniti voteranno «no» nelle tre province in cui sono maggioranza allora sarà tutto da rifare. Se grazie all’accordo dell’ultima ora con due formazioni sunnite vinceranno i «sì» allora si avanzerà verso le elezioni del 15 dicembre e la nomina di un Parlamento e di un governo non più di transizione.
La seconda formazione sunnita ha accettato ieri l’offerta, concordata grazie agli Usa, di sostenere la bozza costituzionale e poi rinegoziare le parti più invise ai sunniti. «Vivere sotto una legge imperfetta è sempre meglio dell’anarchia», spiegano i leader dei due gruppi dissidenti. Gli altri li rimproverano di essersi fatti imbrogliare sostenendo che neppure un nuovo negoziato davanti al Parlamento eletto il prossimo 15 dicembre darà risultati accettabili. «Continuiamo a chiedere un “no” secco e compatto », ripete Adnan al-Dulaimi, già artefice del boicottaggio sunnita dello scorso gennaio. E i gruppi armati minacciano di morte i leader favorevoli al sì definendoli «eretici». L’Associazione degli Ulema bolla, invece, per bocca del portavoce Muthana Harith al-Dhari «l’accordo che legittima un processo modellato sulle politiche di Bush».
Tutt’altra aria nelle province curde e sciite. Lì la nuova Costituzione ad impronta federale è considerata il segnale della fine dell’egemonia sunnita e la garanzia contro il suo ripristino. Ad assicurare una straripante vittoria dei «sì» nel Sud contribuiscono le esortazioni diffuse dai portavoce del Grande Ayatollah Ali al Sistani.
Ieri si è votato negli ospedali e nelle prigioni dove sono reclusi migliaia di sospetti guerriglieri o terroristi.

Non si sa se abbia votato anche Saddam Hussein atteso mercoledì davanti ai cinque magistrati incaricati di leggergli i capi d’imputazione nel suo primo processo per una strage di sciiti risalente al 1982.
La cellula irachena di al Qaida ha intanto definito falsi i contenuti la lettera che - secondo le autorità Usa – Ayman Al Zawahiri, il braccio destro di Osama Bin Laden, avrebbe indirizzato ad Abu Mussab Zarqawi.

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