Arrivano gli Ayatollah, Teheran anno zero

La distruzione, le colpe dello Scià, l’inizio della xenofobia Il momento in cui tutto è franato

Arrivano gli Ayatollah, Teheran anno zero

Teheran, novembre. Addio al sogno di arrivare un giorno a fare dell'Iran il Giappone dell'Asia occidentale. Definitivamente addio. Altra pasta, ci voleva oltre al petrolio. Altri uomini. Altre teste, senza barricate dentro. Parlo, beninteso, dell'una e dell'altra parte in lotta; con le eccezioni, s'intende, che non modificano però la media. Anche se le convulsioni che agitano questo Paese fossero magicamente composte dall'oggi al domani, occorrerebbero pur sempre due o tre anni di "fermata" per porre riparo ai danni, per tornare al punto di un anno fa.

Bisogna dire, d'altra parte, che era un punto di molte - non tutte - strade sbagliate e storte, talune delle quali irrimediabilmente imboccate e quindi, come si suol dire, irreversibili. Non si tratta, qui, di ricostruire soltanto le migliaia di filiali bancarie, di negozi, di alberghi, di bar e di cinema distrutti. Sarebbe il meno, questo. Si tratta di rifare quasi da zero, per esempio, un'agricoltura danneggiata come se fosse stata colpita da una tempesta di diossina. Dicendo agricoltura, intendo dire campi e coltivazioni e allevamenti che non ci sono più; si gira per ore in campagna senza vedere una gallina. Ma intendo dire anche contadini: inurbati in percentuali altissime, essi vivono in disperate bidonvilles o in alloggi periferici che gli portano via due terzi del salario. Oltremodo diffusa in tutto il Paese, la corruzione imperava nella cerchia più o meno stretta dei parenti e degli affini di Reza Pahlevi. Ci deve essere qualche ragione, suppongo, se una settimana fa lo Scià ha ordinato un'inchiesta sugli eventuali "illeciti arricchimenti" da parte della famiglia reale. Un'"inchiesta severissima", ha detto. Fatto sta che il presidente della commissione d'inchiesta, proprio come sarebbe accaduto in Italia, è subito caduto ammalato. Lo Scià ha allora devoluto il compito nientemeno che al ministro di Grazia e Giustizia, e lo ha pregato di "darci sotto". Si vedrà.

Il torto principale dello Scià, a parere di chi scrive, è di avere avviato il suo popolo sulla strada dell'occidentalizzazione (tecnologia, industrie, consumismo, armamenti sofisticati) ma di aver continuato a governarlo come un qualsiasi satrapo di mille o duemila anni fa. Non si possono creare industrie con migliaia di dipendenti senza consentire la nascita di sindacati, non si possono installare televisori in ogni casa (o in molte) senza ingenerare desideri di consumismo, non si possono proiettore film che bene o male lasciano intravedere come si vive in taluni Paesi democratici senza poi concedere ai propri sudditi un granello di democrazia, non si possono far studiare decine di migliaia di studenti in università di Paesi democratici e poi pretendere che al ritorno (com'è in uso da qualche anno) facciano il baciamano allo Scià e che siano costretti a lasciarsi assorbire dalle vecchie cerchie mafiose locali. Non si può nemmeno ricorrere alla tortura come faceva la polizia politica, la Savak, anche se quasi tutti i Paesi del "Terzo Mondo", tranne un paio di eccezioni, ne fanno pratica quotidiana e nessuno di coloro che giustamente accusano lo Scià si spingono ad accusare altri Paesi e regimi. Lo Scia, sarebbe ingiusto ignorarlo, ha fatto anche cose degne d'elogio. Ha per esempio costruito migliaia e migliaia di scuole, non c'è paese o villaggio che non sia dotato di una scuola nuova: ed è grazie a queste scuole, la cui frequenza è obbligatoria fino al quindicesimo anno di età, che l'analfabetismo è sceso dal 90 al 48 per cento. In sostanza, avviato il suo Paese, con ritmo frenetico, sulla strada della modernizzazione e della occidentalizzazione, lo Scià non ha potuto o saputo far sì che i suoi sudditi si adeguassero alla nuova condizione. Non era facile, intendiamoci. Ma il procedere a velocità più ridotta, come sta facendo il vicino Irak, sarebbe stato forse più saggio. Che l'impresa non sia facile lo si vedrà, e subito, nel caso che si arrivasse a quella "repubblica islamica" che Komeini propaganda a Parigi e cui le folle plaudono nelle piazze durante le dimostrazioni. Sarò pessimista, ma nessuno sembra avere un'idea chiara in testa sul come questa "repubblica islamica" debba essere formata, e con quali criteri debba funzionare. Tutto quello che vi si dice è che, a differenza di altre grandi religioni, Maometto non fu solo il fondatore di una religione ma anche di un modo di conduzione dello Stato e, quindi, di governare. Basterà seguire i suoi insegnamenti. Tra i quali, sicuramente, non c'è nulla che inciti alla xenofobia. Questo va detto perché - e va onestamente detto quali che ne siano le conseguenze - un sentimento di xenofobia comincia qua e là ad affiorare. I circa centomila stranieri che vivono e lavorano nell'Iran ne sono ben consapevoli anche se finora, giustamente, si sono generalmente comportati nel modo più saggio possibile. Ugualmente hanno fatto gli italiani, che sono tra quindici e ventimila. Così una per ora modesta corrente di occidentali, tra i quali anche americani, ha incominciato ad abbandonare l'Iran. Si tratta, per lo più, di donne e di bambini, visto che in genere il capo famiglia rimane a vedere come si mettono le cose. Ma non sempre: a partire sono talvolta anche tecnici e funzionari le cui famiglie hanno già lasciato l'Iran. "Non ne potevo proprio più - mi dice una donna lombarda con tre bambini in procinto di lasciare l'albergo per l'aeroporto - in qualche negozio non venivo servita, così come capita a varie mie amiche. All'uscita di un supermarket mi è successo di essere più di una volta insultata". "Insultata perché?". "Perché il mio sacco di plastica gonfio di cose appena comprate induce taluno a gridare: "Salari uguali agli stranieri, via gli stranieri dall'Iran". Interviene una sua compagna, questa con il marito e due bambini: "Si sente l'odio nell'aria. Si figuri che lungo la strada, che percorrevo a piedi per raggiungere il campo da tennis, dovevo nascondere la racchetta in una borsa". Varie imprese americane considerano seriamente l'eventualità di essere costrette a lasciare l'Iran e stanno preparando piani in proposito.

La Parsons Co. ha preparato un piano completo di evacuazione per i suoi 450 dipendenti americani. Un'altra, la Osco, che lavora ad Abadan in coordinamento con altre sei ditte americane cui ha subappaltato suoi lavori, sta ultimando un piano per un eventuale sgombero immediato. Nessun piano di emergenza, invece, affermano di avere disposto alla fabbrica di elicotteri Bell di Isfahan, che ha 3.500 dipendenti americani e 4.400 iraniani. Alla Bell, che è una delle maggiori della quindicina di aziende statunitensi operanti nell'Iran, si afferma tuttavia che "da quando "avvengono disordini abbiamo preso qualche misura di sicurezza.

Quattro mesi or sono, l'ostilità di origine xenofoba si sentiva appena; e c'era anche chi la negava, benché in taluni casi fosse chiaramente percepibile. Ora essa è assai più diffusa e profonda, innegabile. Forse tocca di più gli americani.

Non risulta che misure di sicurezza speciali siano state prese per i dipendenti sovietici della grande acciaieria costruita da Mosca ad Isfahan. Insomma, un po' di xenofobia c'è per tutti. Ma con una eccezione, guarda caso.

(21 novembre 1978)

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