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Iraq, il Senato Usa contro Bush Già pronto il veto del presidente

Dopo la Camera, anche i senatori votano una legge che prevede il ritiro delle truppe entro il marzo 2008, anticipando la data indicata dall'altro ramo del congresso. La Casa Bianca ripete, inflessibile: "Fissare una scadenza idea disastrosa"

Iraq, il Senato Usa contro Bush 
Già pronto il veto del presidente

Non finisce qui. Casa Bianca e Congresso continuano a parlare due lingue diverse. Iraq, militari, sicurezza nazionale e internazionale. Non c'è accordo. Non c'è intesa. Dopo la Camera, ieri il Senato ha approvato una legge che prevede il ritiro delle truppe americane in Iraq a marzo 2008. E l'ha fatto a poche ore dalla minaccia di veto fatta dal presidente Bush. È il replay della situazione di qualche giorno fa, quando la Camera dei Rappresentanti aveva già approvato una mozione sul calendario del ritiro da Bagdad.

La questione resta aperta: i 51 senatori che hanno votato a favore del ritiro tra un anno lanciano un messaggio politico, Bush lancia quello opposto. Si resta in bilico, allora. Con la certezza che nella legge approvata ieri dal Senato ci sono 122 miliardi di dollari di stanziamenti per le missioni americane all'estero. E con un'incertezza in più: Bush e il Congresso non si capiscono, ma ora non si mettono d'accordo neppure Camera e Senato. Perché tra le due leggi proposte a distanza di pochi giorni, c'è una differenza: la Camera aveva votato il ritiro dall'Iraq al primo settembre 2008, il Senato anticipa al 31 marzo.

Dovranno trovare un compromesso, prima che il testo sia mandato alla firma del presidente il mese prossimo. Si dovranno intendere anche se quella firma comunque non arriverà. Perché Bush l'ha ripetuto un'altra volta ieri ai senatori repubblicani: «I nostri soldati sono in pericolo, vogliamo che arrivino loro i finanziamenti necessari. Le conseguenze di imporre una data precisa e arbitraria per il ritiro sarebbero disastrose. I nostri nemici si segnerebbero semplicemente il giorno sul calendario, passerebbero mesi a preparare il modo migliore per sfruttare il loro nuovo santuario, quando ce ne saremo andati. Non ha senso che politici a Washington dettino la strategia ai comandanti che operano in una zona di guerra a diecimila chilometri di distanza».

Il veto è pronto, certo, assicurato. Se la legge arriverà nello studio ovale sarà bocciata dalla Casa Bianca. Quel giorno sarà la seconda volta nella sua presidenza che Bush utilizzerà il potere di bloccare un provvedimento del Congresso. Fino all'anno scorso, era stato l'unico presidente con Thomas Jefferson ad averne mai usufruito. Una rarità, visto che tutti i più grandi presidenti della storia d'America avevano il vizio di siglare col «no» le leggi del Congresso. Franklin Delano per esempio, l'ha fatto 635 volte, stabilendo un record che difficilmente potrà essere superato. Bush ha resistito, resistito, resistito. Ha ceduto il 4 settembre scorso, dopo quasi sei anni di presidenza. La legge bloccata era quella sull'aumento dei finanziamenti federali per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Adesso tocca alla politica estera e alla questione irachena.

Non è solo, Bush. È toccato praticamente a tutti: il successore di Roosevelt, Harry Truman, vietò 250 leggi del Congresso; Dwight Eisenhower 181. Negli ultimi cinquant'anni, il presidente che ha usato più spesso il veto è stato Ronald Reagan: 78 volte. Aveva una maggioranza ostile. Esattamente come ce l'ha Bush adesso. Ieri come oggi, però, il Congresso non ha comunque la forza di superare la barriera del veto. La Costituzione Usa vuole che solo una maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera possa scavalcare il potere del presidente. Vuol dire che al Senato i democratici avrebbero bisogno di 67 voti. Ne hanno solo 51, invece. Il che rende impossibile quello che riuscì invece ai repubblicani con Clinton negli anni Novanta: imporre un'agenda diversa da quella voluta dalla Casa Bianca.

Ora l'unica valenza che hanno i voti anti-Bush del Congresso è d'immagine. Troppo poco per convincere un presidente a cambiare strategia. Abbastanza solo per fare qualche concessione.

Non sull'Iraq, però.

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