Iroaie e le infinite possibilità di segni e colori

Fedora Franzè

È possibile pensare a un uso del colore vicino a quello dei fiori espressionisti di Nolde con animo naïf? E cavalcare i paesaggi di Kandinsky e Marc moltiplicandone le curve e reiterando ancora e ancora le singole pennellate che li costituiscono come a negarne la natura «spirituale»?
Molte sono le suggestioni che nelle opere di Iroaie si ricavano passeggiando a ritroso nella grande storia della pittura. Nessuna di esse ne descrive il carattere ma solo la condizione preliminare: la voracità di un’arte che guarda, assimila, senza neanche rendersene conto, e riplasma nell’istante in cui si esprime con pennello e colore in quantità e un’immagine di tabula rasa nella mente.
Negli spazi del foyer del teatro Sala Umberto prosegue con successo l’iniziativa dell’abbinata: inaugurazione-mostra prima del nuovo spettacolo in cartellone, che ha preso il via a ottobre scorso. Stavolta vengono esposte fino al 28 febbraio le opere dell’artista siciliano di origini romene Dan Iroaie, astrattista dalla formazione da architetto e da grafico.
Dello studio presso l’Istituto nazionale per la Grafica di Roma è rimasta la padronanza assoluta (e anarchica nello sviluppo) del segno nelle sue varie possibilità d’incisione, in una gamma che spazia dalla leggerezza delle linee sovrapposte delicatamente alla stesura carica di base, alla perentorietà della riga che si fa striscia e penetra nel corpo della pittura, in un dialogo sempre nuovo a ogni prova, sorprendente per varietà di concezione.
Ma la composizione per Iroaie non può prescindere dal colore, come da un setaccio che screma le infinite possibili disposizioni dei segni. Il controllo esercitato dal disegno sulla materia emotiva dei colori è appena sufficiente a garantire di un ordine mentale, quindi di un metodo che salva dall’improvvisazione. Il resto, tutto il resto, è annegato e poi esternato con la forza di un geyser attraverso i rossi accesi, i verdi, i gialli, i bianchi insistiti, e come dal piccolo cono vulcanico esplodono liquidi e vapori. A volte, invece, le forme colorate sono quasi tridimensionali, a causa della materia densa e gommosa come il pongo con cui sono realizzate.
In alcuni pannelli verticali l’artista sembra esplorare l’effetto del tratteggio sottoposto a elettricità, tanto fitto e scattante, svirgolante in ogni direzione e minuto, appare il corso rapido della pennellata. Sono opere ottenute con un lavoro di costante ritorno sul già fatto, in tensione continua e potenzialmente senza termine. All’espressione estemporanea, in certi casi più visibile e definitiva, qui il pittore sovrappone la sperimentazione propria dell’artigiano che perfeziona via via l’oggetto attraverso il contatto fisico, la valutazione visiva a ogni piccolo mutamento, con un senso del rapporto tra tempo impiegato e prodotto finale che si dilata all’infinito.


Un’altra sorpresa è nella memoria di figurazione, rintracciabile in un’opera che lascia molto spazio al fondo nero compatto, su cui risalta il gioco d’equilibrio di una torre improbabile, fatta di strisciate colorate sensuali, attraenti come la panna montata, a un passo dallo scivolare giù e mescolarsi in una pozzanghera golosa. L’invito è a gustare quel colore sghembo, diretto ai sensi prima che al piacere intellettuale.

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